fin de siècle
"Fratelli, siate preparati, si è compiuto ciò che il Signore ha detto nel Vangelo: quando vedrete i segni, sappiate che sarà vicino il giorno del Signore grande e manifesto a tutti". Con queste terribili parole Andrea di Bergamo rendeva palpabile il clima di consapevole rassegnazione di una umanità atterrita dall'imminenza della fine del mondo. Siamo nell'anno 875, quasi 900 per dirla alla Troisi, e analizziamo meccanismi mentali collettivi di una società di fine secolo consapevole della propria impotenza di fronte a fenomeni naturali: "... quand'ecco che in piena notte balenò una luce, forte come fosse giorno (l'aurora boreale)" che, oggi comprensibilissimi perché scientificamente accertati, in quell'epoca affermavano invece l'ineluttabilità del castigo celeste.Dal Medioevo in avanti l'umanità si è già trovata 19 volte a dover fare i conti con la "nevrosi da fine secolo" ma una sola volta con quella sindrome psicosica che gli storiografi definiscono "millenarismo" e che ha avuto non solo un'incidenza determinante sullo sviluppo politico-culturale ed economico della società del tempo, ma che ha segnato la profonda trasformazione dei processi culturali, arti figurative comprese, dei primi decenni del secolo successivo.
Ad accrescere però l'angoscia di questi uomini già emotivamente provati da estremi disagi e da mille calamità è la concomitanza singolare, e per certi aspetti magica, che fa coincidere la fine del X secolo con quella del primo millennio dell'era cristiana, il millennio che avrebbe segnato, almeno secondo il ventesimo capitolo del libro dell'Apocalisse, la fine del mondo: "... poi vidi un angelo che scendeva dal cielo tenendo in mano le chiavi dell'abisso, con l'enorme catena. Egli afferrò il dragone (Satana) e l'incatenò per mille anni, dopo i quali verrà sciolto e uscirà dalla sua prigione a sedurre le nazioni che sono ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, per adunarli a battaglia (l'olocausto mondiale)".
Oggi, tempo di "Vicenza alle donne dell'arte" ci avviamo verso questa doppia scadenza con la gioia e la fierezza di poter dire "io c'ero" ma non privi di un inconfessabile stato di ansia per questo "evento" su cui pesa la profezia di Malachìa il quale (in parte d'accordo con Nostradamus), regolando il timer dell'Apocalisse sul 1999, ammonisce: "Nell'ultima persecuzione della Santa Chiesa Romana, regnerà Pietro che farà pascere le sue greggi in mezzo a numerose tribulazioni; dopodiché il Giudice terribile giudicherà il popolo". Una profezia che, almeno per quanto riguarda il made in Italy, contiene tutti gli ingredienti di una storia recente che conosciamo bene: c'è un (di) Pietro e un "terribile giudice" che intende far piazza pulita di un vecchio sistema nel bel mezzo della riesplosione di nazionalismi, integralismi e fondamentalismi: una bella varietà di "tribulazioni" tali da rimettere in discussione equilibri politici e sociali faticosamente raggiunti nel corso del ventesimo secolo.
Ma se da una parte questa sorte di divinazione messianica cade sul territorio ormai disincantato di una società in massima parte più preoccupata di arrivare alla fine del mese che non alla fine del mondo, non si può non rilevare che un alone di suspence grava sul futuro delle generazioni future, se è vero che i giovani, di fronte al crollo dei miti, alla riconversione delle ideologie, all'alienazione della tecnologia, cantano allo stadio tenendosi per mano: "...sta arrivando la fine del mondo, non c'è un attimo di tempo; è nell'aria la fine del mondo, prepariamoci all'evento e senza panico prepariamoci a fuggire..." (L. Barbarossa).
In occasione di questa mostra tuttavia, ciò che maggiormente ci interessa non è tanto l'effetto chialismo che attiene all'antropologia culturale, quanto la valutazione in progress degli sviluppi che la "nostra" fin-de-siècle saprà proporci nel settore delle Arti Visive, autentico termometro della "temperatura" culturale della società, attualmente caratterizzata da una rinnovata mescolanza di stili estremamente diversi tra loro ancorché convergenti verso un obiettivo spesso mercificato: la conquista di una pool position di privilegio sul precorso angusto e accidentato del mercato dell'arte.
Se quindi diamo per scontato l'assunto secondo cui gli ultimi anni di ogni secolo contengono in nuce i segni di quello successivo, il condurre un'analisi docimologica sui codici visivi di quest'ultimo decennio può servire ad individuare le coordinate iconografiche di partenza per l'elaborazione del nuovo linguaggio del XXI secolo.
Non vi è dubbio che la polverizzazione delle tecniche pittoriche che ha caratterizzato gli anni Ottanta ha imposto una rilettura critica del rapporto arte-società seguendo una traccia strettamente semantica e ponendo l'accento sulla imprescindibile connessione tra "segno" (come immagine visiva) e "referente" (considerato anche come soggetto attivo e partecipe) che in termini di linguaggio resta uno degli aspetti più emblematici dell'arte contemporanea nel momento in cui il linguaggio si è appropriato dei mezzi di cominicazione di massa e i media hanno elaborato, a loro volta, "sistemi di comunicazione" sempre più immediati ancorché dotati di facile presa.
In questo clima l'arte, giustapposta ad altri linguaggi, ha sperimentato se stessa quando è entrata nel giusto rapporto di interrelazione con il complesso sistema della comunicazione senza rinunciare alla propria autonomia paradigmatica. Tuttavia, la necessità che il linguaggio tra emittente e ricevente, per essere facilmente comprensibile, potesse servirsi di un "codice" (o sistema di segni) comune sia all'uno che all'altro, ha spesso spinto la ricerca artistica verso il facile consenso nazional-popolare, determinando nell'ultimo scorcio degli anni Ottanta il massiccio, e a volte indiscriminato, recupero del gusto barocco non di rado sfociato in operazioni kitsch.
E' proprio grazie a questo recupero che l'opera ha perduto la sua centralità, indicando all'inizio degli anni Novanta un percorso preferenziale che ha riconsiderato l'"oggetto" oltre il modello concettuale duchampiano, lo ha de-contestualizzato per rapportarlo a parametri visivi di riferimento formale: l'oggetto è entarto in tal modo nell'opera che priva così di margini, confini e orientamenti, è diventata "praticabile", ha scoperto il gusto della rappresentazione, ha recuperato lo Spazio, il Tempo e la Memoria che aveva perduto con gli anni Settanta diventando "luogo" dell'arte e "per" un'arte sempre più votata al polimorfismo e indirizzata verso la plurimedialità dei linguaggi.
Le artiste di "questa" fin-de-siècle rappresentano il risultato di una accumulazione delle esperienze condotte dagli anni Sessanta ai nostri giorni e ci rappresentano l'esito della ricerca artistica che ha sperimentato con l'urgenza e l'ansia di registrare, documentare gli umori e le sensazioni della cronaca, quando non della Storia, di un Paese profondamente segnato da date che scandiscono il tempo di vicende memorabili e terribili insieme: il '68 di Valle Giulia, il '78 dell'affare Moro, il '92 di Tangentopoli; come a dire dal "Teatro delle mostre" della Tartaruga di Roma ai "Punti Cardinali dell'arte" di Bonito Oliva.
IL LUOGO
Il "Teatro dell'attesa" allestito da LUCIA PESCADOR evoca un universo sacrale dove simbolico e semiotico s'intrecciano senza soluzione di continuità, dando corpo a una contaminazione linguistica perennemente in bilico tra realtà e metafora. La fitta texturizzazione del campo è l'effetto catartico del vissuto collettivo teso alla ricerca delle origini e di una identità mitologica che abita terre lontane e inconscie.
C'è nelle tele di ANNABELLA DUGO una continua relazione tra "motion" ed "emotion" se è vero che il grado di partecipazione emotiva che riesce a stabilire tra emittente e ricevente è direttamente proporzionale al ritmo e all'intensità del percorso senza limiti che la mano indica nell'azione creativa.
La Dugo adotta una sorta di magico rituale grafico il cui impianto linguistico celebra la conquista di desideri sospesi; pratica territori dell'immaginario; propone video-viaggi fascinosi verso un mondo dove si condensano stratificazioni di antiche culture.
Il lavoro di MIRTA CACCARO persegue la sintesi e la stilizzazione formale; il suo soggetto di riferimento (il cavallo nel caso specifico) perde la consistenza materiale per diventare segno delle coordinate spaziali dell'opera e del percorso illustrativo di un racconto inquieto e a volte ironico. Il gioco sapiente del contrasto riflettente-assorbente propone soluzioni dense di significazioni che attaccano con insistenza i margini dell'opera.
MIRELLA BRUGNEROTTO procede in modo del tutto personale a una perlustrazione "in quota" sugli aspetti del quotidiano, elaborando una mappatura cartografica ricca di suggestioni terrene e di visioni poetiche. Il sapiente gioco orchestrativo segue un procedimento mentale che evoca un mondo enigmatico ancorché conturbato, emotivamente ma anche realisticamente reso attraverso il ricorso a una pittura di impatto impressionistico anche se liofilizzato da una esemplificazione recuperata dal vissuto dell'infanzia.
E' difficle stabilire se le "frammentazioni" di PAULINA HUMERES siano riferimenti temporali, spaziali o memoriali. Personalmente ritengo invece che l'artista tenda a frammentare l'"idea" medesima che guida la concertazione degli elementi dell'opera senza per questo disperderne la matrice costruttiva. Anzi, la ripartizione sistematica delle forme di riferimento coinemico, la loro catalogazione e disposizione topica suggerisce un'indagine che incide in profondità, prossima quindi all'archetipo.
LO SPAZIO
MARINA MENTONI opera secondo stilemi post-minimalisti il recupero dello spazio topologico della tradizione rinascimentale, che al di fuori di qualsiasi schema formale precostituito, fonda il proprio impatto visivo sul rapporto vicino-lontano, interno-esterno, di continuità e contiguità con il luogo cui è riferito. La temperatura materica dell'opera è raffreddata dal ricorso a una pittura di superficie sublimata dal procedimento mentale dell'understatement estetico.
ANNAMARIA GELMI spinge al massimo grado il procedimento di reinvenzione dello spazio, rimestando con decisa leggerezza il luogo stesso della rappresentazione fenomenica matematicamente ripartito in forme cromatiche semplificate. I frammenti delle architetture del "suo" antico immaginario, prima decontestualizzati e poi modulati, hanno oggi occupato una dimensione propria che sa dell'alchimia tardo gotica e della sintesi minimalista.
Al di là dei pur evidenti riferimenti memoriali, sembra interessante evidenziare nell'opera di ANNA MORO-LIN il "gesto" pittorico che l'artista compie quando ne manipola massicciamente la superficie. L'atto, a volte discreto del sollevare, a volte violento dello strappar via, coniuga spazio interno e spazio esterno dell'opera che interagisce così con l'ambiente che la contiene.
MARTA PILONE mira ad azzerare il protagonismo dell'opera pittorica bidimensionale, giocando con le regole della "percezione ambigua": l'opera che nasce in relazione con lo spazio fisico e si confronta con il linguaggio dell'architettura, è sottoposta alla legge dell'angolazione. Lo scarto, sovrapposizione, accostamento, accumulazione degli elementi formali sono governati dal referente che entra a far parte del gioco in qualità di spettatore attivo "fra teli, legni, fra mari di colore, fra nucleari impulsi e agglomerate tessiture" (Maurizio Vitiello).
Nelle opere di MARCELLA LENARDUZZI, "splendide tessiture su chiari, l'anima e la materia, il gioco crudele e la tenerezza, l'estro e la memoria si fanno parenti così stretti, che pare non possano essere diversi i rapporti di una pittura appassionata e fantasiosa col suo fruitore" (Marcello Venturoli). L'essenza della vita nella pittura della Lenarduzzi è proprio lì, celata dalla spessa coltre dell'impasto pigmentoso; violato, incatenato, circoscritto, legato, inchiodato eppure vulnerabile a un sogno nascosto che s'intuisce attraverso screpolature e anfratti materici.
IL TEMPO
ROBERTA PUGNO pratica una sorta di decostruzione formale di uno spazio che diventa luogo di eventi e di contaminazioni. La tela sopporta l'accumulazione di un magma sedimentato e vissuto che scandisce il tempo di enigmatici propositi. La presenza di oggetti d'affezione nello spazio della rappresentazione rimanda a presenze arcane e a rituali tribali che contengono il senso della metafora: il ritorno al primordiale come negazione della realtà tecnocratica.
Le opere di DELFINA CAMURATI sono la testimonianza dello scorrere della vita e della storia dell'uomo. I processi d'identificazione si dispongono sulla tela secondo partiture regolari tracciate da presenze antropomorfiche i cui dati sensoriali trasferiscono sul supporto racconti puramente concettuali. I "muri" della Camurati sottolineano la "simulazione e quindi l'apparenza di questo tempo disilluso, dove i miti non rivelano più nulla e dove il vero è smentito dall'artificio dei materiali". (Maria Campitelli).
La matrice semiotica delle opere di ADELE MONACO si colloca a mezza strada tra noto e ignoto; in un tempo dove il passato è fatto di immutabilità storica e il futuro è frutto di vertigine creativa: "squasso" traumatico dove il sussultamento tellurico genera il gusto drammatico per la manipolazione della materia (mi viene in mente Domenico Spinosa). "irrequieti segni, umori di forti espressività, sovrapposti frammenti, sottese pulsazioni, ma forse fin troppo rapida notazione dell'osservata natura, si rincorrono sulle tele" (Maurizio Vitiello).
"Lavoro quello di TOMASO BINGA sulla scrittura, ma spesso inserita in un contesto che è quello casalingo, borghese, consuetudinario. Però demistificata, reincarnata "in carne e ossa" nelle strutture stesse del proprio corpo" (Gillo Dorfles). La valenza iconico-provocatoria delle sue tematiche discorsive sfida l'immutabilità del tempo come in "Riflessioni a puntate"; comunicazione durata un anno che fonda il suo fascino sulla suspence dell'attesa, sull'ansia dell'incontro, sulla contemporaneità diseuguale di un rapporto empatico di solidarietà.
LUCIA ROMANELLI opera una modulazione empirica dello spazio il cui ordito chiaroscurale si fa significante in quanto nega il valore assoluto del supporto. Il suo graffitismo esalta i valori del contrasto simultaneo; luce ed ombra si alternano sulla retina secondo un'alternanza ambigua regolata dallo scorrere delle ore, dal mutar delle stagioni, dal passaggio dalla notte al giorno.
La perlustrazione "sotto vuoto spinto" che GRAZIELLA DA GIOZ ha compiuto partendo da altissime "cielitudini" e via via scendendo ad incontrare metafisiche montagne, muti salici d'impalpabili paesaggi, approda a rivelazioni terrene. La "strada" delle sue esplorazioni non è quella che suggerisce l'idea del viaggio ma è la significazione del "luogo" dello spirito ove vissuto e memoria confondono i loro confini fatti di tracce filamentose e di materia negata.
LAURA STOCCO conduce una indagine sistematica del tutto soggettiva sull'elemento naturale mettendo in moto un procedimento quasi meccanico di produzione e riproduzione, costruzione e decostruzione di un impianto di riferimento ora amplificato, ora ridotto, ora trasformato secondo uno scarto temporale che ne segna il percorso. Il codice strutturale è fondato su coordinate modulari atte ad annullare i margini di un contenuto narrativo "en plein mémoire".
Il lavoro di CARMEN DE VISINI affonda le radici nel concettualismo degli anni Sessanta-Settanta connotato tra il fronte hard di Kosuth e l'azione soft di Beyus. Ma qui gli apporti di brandelli comunicativi sono contaminati da suggestioni zen che rendono più misterioso il codice linguistico; la ripartizione della scrittura nega interi brani del racconto in modo tale da annullare completamente il riferimento narrativo e lasciando quindi il posto a semplici tracce emozionali di esperienze vissute.
"Ho lavorato per quasi dieci anni -scrive GIOSETTA FIORONI- sul magico, partendo dal mondo delle fiabe, le leggende degli spiriti silvani, tutto il tessuto multiforme di libri, mito, tutto questo unito a un lungo soggiorno nella campagna veneta in cui ho raccontato una serie di verbalità, racconti di eventi magici locali". E' il repertorio di recupero di un "teatrino del quotidiano" dove si rinnovano magici rituali offuscati dal tempo e luogo della rappresentazione di una crociera fantastica che fa rotta verso i lidi della fantasia, dell'enigma, dell'incanto.
Di PARTIZIA GUERRESI, Filiberto Menna scriveva che "la rivisitazione del passato, che costituisce il motivo dominante delle sua opera, assume una connotazione particolare, rientra anch'essa in una declinazione della storia che mette in evidenza le varianti più che i cambiamenti". Ma cambiare significa morire tout-court oppure cominciare ad esistere trasformati? Le resine metamorfiche dell'artista non sciolgono l'enigma dell'origine: l'uomo alato della Guerresi si avvia a diventare terra o la terra ha appena generato l'uomo?
IL FUTURO?
E' nel terzo millennio.
Simone Ricciardiello, ottobre 1993
Presentazione a catalogo.
VIDEO
IMMAGINI
La mostra è stata allestita nella Basilica Palladiama dal 16 al 21 novembre 1993 con il patrocinio degli Assessorati alla Cultura della Provincia e del Comune di Vicenza.
Durante il periodo dell'esposizione, la mostra è stata visitata da 6754 persone.

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