Testi
ALCUNI BRANI CRITICI
UN'IDEA DELL'ARTE
«La sposa messa a nudo dagli scapoli, 2 elementi principali: 1. Sposa, 2. Scapoli. Disposizione grafica. Tela lunga, in altezza. Gli scapoli dovendo servire da base architettonica alla sposa, questa diviene una specie di apoteosi della verginità. Macchina a vapore con basamento in muratura (maconnerie, in francese) su questa base di mattoni» (Duchamp).
È il Grande Vetro, rimasto incompiuto così se ne vede meglio l'idea: La Mariée mise à nue par ses celibataires meme, che in seconda lettura per Calvesi diventa: La Marie est mise à nue par ses celi-batteurs, ovvero: Maria è messa nella nuvola dai propri trebbiatori celesti o celi-trebbiatori. Maria portata alla nuvola, la Vergine Assunta, proprio come «nelle tradizionali iconografie dell'Assunzione», spiega Calvesi, dove la scena è divisa quasi sempre a metà, terrestre e celeste, e dove, come qui, il Grande Vetro è diviso pure in due scene: ne parla Duchamp quando ci vede due macchine, una "a vapore" e, l'altra, una "macchina agricola": in muratura alla base, maconnerie (di casa, maison) e la sua massoneria segreta dell'arte.
Ermetica, dunque, e segreta. Anche Schwarz parla di «concetto mitico dell'agricoltura come matrimonio simbolico di terra e di cielo», ma aggiunge che «l'aratura viene associata alla semina e all'atto sessuale».
Quest'opera è per l'arte moderna, la modernizzazione dell'arte, quello che il Canone, la statua di Policleto, è stato per il classicismo e l'idea antica dell'arte. Policleto («il solo uomo che facendo un'opera d'arte fece l'arte stessa», disse Plinio) fonda il classicismo, così come Duchamp scioglie il modernismo e lo fonda, con la sua nuova idea d'alchimia mentale nell'arte.
Ricciardiello pensa l'operazione dell'arte all'interno di questa psicologia libera da ogni inconveniente stilistico: a questo scopo ogni prelievo non avviene dentro ad una qualche antologia delle forme, ma in quell'area che si sarebbe definita, una volta, dei contenuti. Le figure, che entrano in composizione e nella scena simbolica dell'opera, allora, non ricordano nulla dell'arte e della storia dell'arte, ma si portano dietro qualcosa che ricorda certe irrealtà delle cose: agendo così più come sintomi privi di scena che come pezzi di simboli. II sintomo ha questo di differente dal simbolo, che mette insieme qualcosa senza che se ne sappia origine e fine, di più: senza che se ne sappia addirittura la sindrome. Così fa soffrire di più la coscienza, che prova l'anamnesi per trovare, nella dispersiva memoria dei sensi, un qualche resto irrisolto, un passaggio di vita, il luogo di un segno mai visto. Di qui quel repertorio di piccoli oggetti e soggetti di una sogneria metropolitana e domestica, personale ed ignota: I'indistinzione tra scia di sé ed espressione di un linguaggio del pubblico fa gioco a una sindrome attuale che prende i soggetti e ne confonde la storia. Così la macchina dell'opera può fare da cànone al senso, e, insieme, al segno dell'arte: il modello di vita, l'esempio di scena, che tutti cerchiamo per l'economia di un qualche valore, trovano allora nell'opera qualcosa che imita quello che viviamo in uno stile di cosa che è da recente uno stile economico.
L'economia dell'anima è infatti un desiderio comune, data la varietà di quello che siamo di epoca in epoca, un'età dopo l'altra: e allora ridurre questo caos al piccolo ordine intanto di una imitazione anche casuale, vuol dire darsi un recapito, tornare a qualcosa. L'indistinzione generica precipita magari in un segno, una cosa che vibra: l'estetica più segreta dell'oggi tende appunto a cadere al di fuori di ogni sapere, e cultura; c'è qualcosa che è rimasto fuori porta o dietro le mura. I soggetti non sanno più dove andare, qualcosa li tiene alla sovranità della macchina, alla mondialità dello vita, ma (anche) qualcosa comincia o tirarli per le vie di una solitudine più visionario e oscura, segreta e un po' povera. L'alchimia dell'artista è allora l'estetica senza fine di questa psicologia senza ordine né senso, tra desiderio di un qualche contatto e una caduta libera nel nuovo infinito.
È dentro questa idea che vive l'estetica, l'eserciziale poetica di questa eclettica mostra: artificiale nella sua stessa trasparenza simbolica, essa dà luogo ad uno specie mnemotecnica dei fatti di scena, dove i simboli, i materiali, le connessioni non organizzano un mondo, lo smontano. Ne presentano invece il sipario (trompe-l'oeil), l'immaginazione che divide: di qua i viventi, chi guarda, la loro platea, della quale si indovinano i desideri, il disordinato erotismo; di là un artista, un soggetto speciale per una storia scomparsa, e adesso solamente giocata, ignara sui resti mirabili di una archeologia interiore, un po' delirante, isolata.
C'è un'opera in mostra che funziona da cànone, la cui descrizione fa andare in frantumi la nostra lettura, che allora ha bisogno di un ritmo per tenere le cose, una certa cadenza un po' metrica delle parole.
Una maschera, per ammiccare più che nascondere, ludica dunque e forse anche funebre, ma alla fine soltanto di gesso in forma di resto o di cosa; e bianca lo stesso, sospesa o appoggiata, una piccola palla, anch'essa di gesso, ricorda, ma senza cultura, quell'uovo simbolico della pala di Brera, e sopra, più in alto, che ricorda di Piero, ma senza cultura, la conchiglia nella stessa pala di Brera, un arco flessibile a filo d'acciaio, e all'estremità due cose a fare da peso, in contrappeso, eccetera, che non ricorda più nulla, sterile, inerte; e in basso, in fondo alla tela, un po' prominente, un piccolo oggetto di una mini-consolle, una cosa da gioco, senza essere tuttavia ancora un giocattolo, e allora nient'altro che la sua piccola forma e figura di una mini-consolle un poco infantile, un po' petulante, e (sopra) altre cose da gioco, un poco più tristi, soldatini, oggettini, eccetera, in proiezione e a fondo perduto; mentre la tela fa da sipario (trompe-I'oeil), da scena e da quinta, con le sue scene dipinte, dei teatrini da gioco, ormai fuori gioco, le immagini stesse senza una storia, e l'arco in alto a pendere al centro più per tenere, l'idea di tenere le cose così dall'esterno, che per dar luogo a un interno, dove invece, nel fondo, si nota una superficie domestica o mattonelle, un'idea familiare e segreta, d'ambiente, di casa, di tinte: e, al centro, di fronte, un intervento su carta di segni informali, un'idea gestuale, ma senza cultura e di carta, la parete frontale dipinta, intelata anche male, a pieghe e a grinze, incollata, grassa, incollata e un po' guasta, eccetera. Un denso artificio, senza prestigio e l'effetto a sorpresa o il suo scioglimento felice: così tutto resta e si vede, quasi dentro, un gesto sull'altro, un'idea dopo l'altra. Involontario l'effetto di una costruzione un po' greve dell'opera aperta, genialmente inesperta, in realtà trasparente: non è che l'effetto speciale, un'idea dell'arte.
Una ricetta poetica: prendete una tela...
Per dire: non ci resta che l'arte, ma come suo gioco, il suo puzzle. Malinconia del bambino di Freud, solo in casa, il mattino, rimasto a giocare al rocchetto, in camera, dalle sponde del letto, e la finta delle stesse parole, ritagli, solo due, un po' dadaiste: "fort", poi "da". Non di certo come hanno già fatto Zeusi e Parrasio, una volta, nella gara famosa, a ingannarsi l'un l'altro con l'arte, al gioco dell'arte a cui è stato dato poi un nome francese: "trompe-l'oeil', l'uno cioè con una tenda finta e dipinta, a siparietto sul muro, che l'altro ingannandosi ha provato a scostare; e l'altro con dei grappoli d'uva a ingannare gli uccelli venuti a posarsi sui chicchi... non come questi, che ingannano l'occhio, secondo il gioco degli artisti più antichi.
Qui è piuttosto l'idea moderna, secondo il gioco scoperto dell'arte, dove «i grappoli d'uva non attirano più nemmeno gli uccelli. E solo la mente riconosce la mente» (Cocteau). Perché, come spiega Cocteau, è il trompe-l'esprit che è emerso ed è nato, il suo gioco di rito per il gioco d'attualità delle mostre, che sono ormai diventate con i loro segreti il gioco dei giochi di rito in società.
Salvatore Fazia,
presentazione a catalogo Galleria Due Ruote Vicenza, febbraio 1990

PIANOFORTE D'AFFEZIONE
La visione di un oggetto è sovente il riflesso dell'oggetto su di noi.
La sua immagine può pertanto non distinguersi dall'immagine personale se questa diventa il campo di una nostra identità di conoscenza. Gli oggetti d'affezione si pongono in tal senso quali fisionomie di un autoritratto.
La proiezione sul piano, il corpo opaco di una superficie, schiaccia la visione sulla diagonale di un punto di vista: l'immagine si dispiega come su una traiettoria planante. Credo si possa cogliere così la visione che Simone Ricciardiello va trasferendo sulla tela di un suo oggetto prediletto: l'oggetto appunto d'affezione è il pianoforte.
Quale strumento musicale la sua immagine diviene ai nostri occhi tramite di "rispondenze" che in termini musicali non possono non proporsi e indurci oltre lo strumento stesso. Sicché la visione, per noi in comune al punto di vista di Ricciardiello, deborda i contorni dell'oggetto e ripiega al suo interno. Quale oggetto d'affezione l'immagine si porge riposta in un incavo di suscitazioni interiori e diviene tragitto decostruttivo, percorso nei suoi ingranaggi di macchina musicale. Sicché la visione, capziosa per noi, si prospetta sul piano quale anamorfosi di strutture meccaniche.
La scatola sonora si squinterna sotto l'azione indiscreta di un occhio che ha sostituito l'incedere percussivo della mano. Allo sbalzarsi (bianco-nero) dei tasti, ai movimenti del pianoforte si innesta la mobilità trasfigurante dell'immaginazione visiva. In obliqua dislocazione la tastiera si frantuma per ordine compositivo: i suoi ingranaggi meccanici segnano sul filare del pentagramma i margini e le protensioni fisiche. L'aggetto serpeggiante dei percussori si protende come un organismo lacustre.
Tramite le corrispondenze dell'oggetto d'affezione la consueta assimilazione di musica e astrazione si dispone quale integrazione di armonie architettoniche. Si può dire che l'intento muova verso remote ma operanti coniugazioni dello spazio in "chiave" musicale. L'urgenza tuttavia di trattenere i propri termini di linguaggio, il proprio tenore espressivo, di quà da ogni rarefazione mentale tramuta la "chiave" in regola esperibile. Il campo di trasfigurazione si consegna pertanto all'incontro e intreccio di simboliche nonché praticabili configurazioni urbane. Sicché per Ricciardiello l'oggetto d'affezione diveta tramite di identità conoscitiva, riflesso, ossia, un metodo di ragione.
Luigi Paolo Finizio
presentazione a catalogo personale Inquadrature 33
Firenze, giugno 1980

I MECCANISMI MUSICALI DI RICCIARDIELLO
E' ormai accertato che l'arte è a un bivio: o prendere una strada autenticamente nuova o cessare definitivamente di essere. Qui non si tratta di parlare enfaticamente di "merte dell'arte", per usare una locuzione cara ad Argan, ma di creare le condizioni perché si ristabilisca un dialogo sincero tra chi riceve l'opera e chi la crea, non però tornando indietro di quarant'anni con un'operazione restauratrice come piacerebbe a tanti: bensì debordando verso un tipo nuovo di pittura che tenga però conto di quanto è avvenuto in questo dopoguerra.
Non si può dire che tutti gli artisti abbiano compreso l'inderogabile esigenza di cambiare metro di rappresentazione del rapporto tra l'uomo e se stesso e tra l'uomo e la realtà ma non è neppure onesto affermare che esiste il buio più assoluto e che è impossibile riuscire a squarciarlo.-Per cominciare, si avverte la necessità, da parte dimolti giovani pittori, di abbattere tutti gli steccatitra le tendenze. Se ne trae la conclusione che non è più un solo orientamento ad essere di moda o ad essere seguito, ma che sono egualmente considerate tutte le tendenze che si sono disputati i favori del pubblico in questi ultimi anni, con l'eccezione della ricerca concettuale che va perdendo sempre più terreno in Europa ed in America. Talché è possibile assistere a mostre, che un tempo avrebbero suscitato un vespaio di polemiche e che sarebbero state definite antologiche e contraddittorie, ma che oggi rappresentano l'aspetto più saliente di una nuova maniera, forse più aperta e più sincera, di fare arte. E' possibile, infatti, vedere mostre i cui modelli post-astratti e post-informali sono accanto a quadri nuovamente figurativi (anche se definiti come appartenenti alla transavanguardia, l'ultima trovata modistica di alcuni critici "capi-scuderia" che rilanciano una pittura fatta di immagini figurali di dubbio gusto e di dubbia validità.
Questa premessa era necessaria per chiarire il ruolo di Simone Ricciardiello, un giovane pittore del quale non molto tempo fa ebbi a parlare assai bene perché autore di rigorose quanto deliziose ricerche neo-astratte che si potevano considerare, sotto certi aspetti, autentici esempi di pittura-scultura.
Ricciardiello riusciva ad evidenziare il carattere plastico delle creazioni e a fare in modo che linee, colori e materiali si sintonizzassero talmente bene da offrire al pubblico non soltanto dei quadri-oggetto di raro vigore stilistico ma anche opere di grande piacevolezza.
Ora Ricciardiello compie un cammino a ritroso nella memoria e, ricordando i suoi trascorsi di musicista, elabora una nuova serie di opere in cui il carattere onirico surreale si fonde in maniera ineccepibile con l'astrazione pura. Il giovane quanto avvertito artista penetra con accertata e inebriante lucidità nella perfezione meccanica (corde, tasti, martelletti) interna del pianoforte, strumento musicale principe, ed esterna (partiture, pentagrammi), compiendo una ricerca che si avvale, oltre che di una sensibilità lineare compiuta ed estremamente matura, anche di una non comune capacità di comprendere il rapporto tra musicalità e pittura. Ma non si tratta, come per Veronesi, di un tentativo di integrazione che l'artista compie per cogliere la musicalità del colore.. Per Veronesi, infatti, suoni e colori sono delle vibrazioni ed entrambi i fenomeni si esprimono in ultima analisi con dei numeri; per Ricciardiello, invece, il rapporto non è di integrazione tra due elementi eterogenei quali sono il colore e la musica ma di parallelismo tra due elementi simili quali sono, sul piano geometrico, le corde del pianoforte e le linee dell'immagine astratta. Che poi la musicalità, come dicevo, agisca sull'artista a livello subliminare vuol dire che la rigorosa analisi dell'artista si diparte da motivazioni surreali oniriche per giungere a conclusioni opposte.
Non si può negare insomma che la musicalità repressa agisca in modo sconvolgente sul subconscio del pittore, il quale tuttavia, traduce in elementi neo-astratti di profonda suggestione tonale gli stimoli esterni.
Gino Grassi
presentazione a catalgo mostra Studio Ganzerli
Napoli, aprile 1980

Presentato da Gino Grassi, espone allo Studio Ganzerli Simone Ricciardiello, giovane pittore napoletano. Il titolo: "Ricciardiello in concerto" insolito per una mostra ma suggestivo. Si immagina un vario dispiegarsi di colori, si pensa a dei rapporti misurati tra pittura e musica come per Veronesi. Niente di più inesatto.
Ricciardiello persegue un proprio obiettivo: cioè trovare una linea mediana di ricomposizione tra l'immagine figurativa e la ricerca neoastratta. Da un lato infatti Ricciardiello, per non cadere nella pura astrazione, oggettiva le note musicali con inserti di balsa sulla tela che rappresentano o la tastiera o i martelletti e dall'altro nei tracciati delle linee delle corde scopre con risonanze matematiche il viaggio del suono dal pianoforte all'orecchio. Ciò però si compone su grandi scomparti di colore del fondo. Questo assorbe l'aura ritmica e la meccanica del gesto sulla nota prescelta analizzandone le componenti principali, tanto da cotituire come un reticolo di funzioni minimali attraverso cui il suono si unifica in musica.
Ciò però non potrebbe darsi se non con un equilibrio di campiture cromatiche che realizzano il "concerto" nella sua componente astrattiva. Ma tra la nota scelta, mutuata quasi sempre da Beethoven, e il colore non c'è una rispondenza astratta. Altrimenti non si comprenderebbero i colori che vanno sempre in una luce tenue, delicati nella gamma di tinte pastello.
Anzi, proprio il colore del fondo ha la funzione di amalgama tra i due momenti: quello figurale e astrattivo. Su di esso si struttura un modulo compositivo nuovo che procura all'occhio un fascino sottile. L'occhio sembra perdersi nelle tonalità chiare e attraversare il suono, viaggiare con esso e smarrirsi in una inebriante fuga surreale, quasi onirica.
Ciò riduce l'assunto neoastratto di Ricciardiello a un'indagine specifica che evidenzia il processo con cui si ottiene il suono, nei suoi aspetti tecnici e stilistici.
Gerardo Pedicini, maggio 1980

GLI INTERROGATIVI SULLA COMUNICAZIONE VISUALE DI SIMONE RICCIARDIELLO
...Altro è il campo di ricerca nel quale, da anni oramai, opera Simone Ricciardiello, la cui personale è ancora aperta alla Galleria Due Ruote di Virgilio Scapin, nella via omonima. La comunicazione visuale, gli interrogativi da essa derivanti nello sforzo dell'uomo ora impegnato nel tentativo di sfuggire, quanto possibile, ai condizionamenti dell'assuefazione visiva, nonché la fiducia riconquistata nelle risorse immaginative e rappresentative sono i temi centrali del discorso pittorico di Ricciardiello. Da qui ha origine e motivazione la sua scelta di "una posizione propositiva piuttosto che impositiva", di cui scrive nella nota introduttiva del catalogo Alessandro Sisti, il quale precisa inoltre che trattasi di un continuo trapasso tra il linguaggio soggettivo della memoria e quello "oggettivo e presente del dialogo tra opera e fruitore...". Un trapasso che impone la presenza dell'oggetto inserirto non perché dia il senso di una intrusione antitetica, ma come elemento straniante che postula la ragione di questo spostamento dall'area di oggetto destinato a servire a qualcosa a quella estetico-rappresentativa.
Così si capisce e si accetta la presenza della spatola che rimane appesa e impigliata ai colori da lei manovrati e portati allo stato ora denso ora sciolto fino alla colata. Si scoprono anche le ragioni per cui l'aquilone rimane legato alla corda che lo lancia in alto nello spazio libero e invece perché la cornice, anzi che starsene fuori a chiudere e isolare uno spazio dipinto, si pone sopra, inserita nell'opera in via di definizione. Diviene spiegabile il motivo delle barchette, ottenute dalle bucce di noce galleggianti sull'acqua, le quali, pur chiuse in un contenitore, si collocano come le parti integranti dell'area dipinta; così come appare accettabile l'inserimento, fra le strutture formali del dipinto, di mensolette bianche che sorreggono gruppi di guerrieri indiani scelti tra quelli forniti dalla industria del giocattolo. E si potrebbe continuare in questa ricerca dei perché, lasciata comunque alla osservazione e all'intuizione del fruitore.
Nella gestualità di Simone Ricciardiello fa risalto l'impiego del colore ottenuto con gamme accese, sciolte nel passaggio dagli scatti gestuali alle stesure meditate e attente ora ai richiami e ai riscontri, ora alle contrapposizioni.
Salvatore Maugeri, Il Giornale di Vicenza, 19 maggio 1988

LE RADICI EMOZIONALI DI RICCIARDIELLO
Procedendo per associazioni mentali la pittura che Simone Ricciardiello ha presentato al Triangolo di Napoli, seleziona a livello di coscienza molte tensioni dell’inconscio che alimentano la sua ricerca. Gli impulsi incontrollati, rimossi da un condizionamento di poteri fisico emozionali, le immagini residue, operano da congiunzione con la realtà dell’artista che, nel linguaggio naturale della rappresentazione pittorica, identifica l’anima primitiva, sognante, restauratrice della vita nella sua integrità con la forza dell’Alma Venus: la vera natura muliebre è fonte di riscatto dal mondo effettuale e dalle miserie quotidiane. A prima vista il racconto sembra sfuggire ad una precisa informazione od omettere un dato decisivo, ma quando l’indagine penetra sull’oggetto reale, allora tutto il processo si chiarifica. Il flusso di ricordi, di istanze infantili, di emozioni subliminali e non registrabili orientano i riferimenti concreti. La sessualità si connota come fonte d’ogni umana operazione, alimenta il corpo, lo placa nel sogno, lo sprona alla guerra. I limiti del sesso diventano limiti ambientali: la donna matrice d’Eros, il sangue dimensione cardine della vita. Laddove emana la fluidità di certe lievitazioni materiche che dovrebbero contenersi nel colore, si concretizza il senso della segregazione, dell’amore come illusione mediata.
Ma è sempre la donna ad operare nella sfera emotiva come territorio concreto, come architettura solida, aperta su un miraggio e l’indagine del suo mondo spossa come quella del mistero. Il corpo per precisarsi nel gesto e nella realtà si vela o si svela e la precisa funzione degli indumenti nelle operazioni sensibili sottolineano l’erotismo che purifica e lo sgomento che non controlla la sete del corpo. Le grafiche ancora più segnatamente accentuano l’anelito ad estraniarsi dal mondo e a ritrovarsi con altre compagnie ricche di significati umani e di emozioni: avventure, plenilunio, fughe, tensioni, passioni. I partners di Ricciardiello dedicano i loro amori ad amanti ignoti e fantastici, fuggono dalla realtà verso mete imprecise. E che si tratti di immagini diramate dalla fantasia, rimosse dai loro simboli che l’artista si illude di rappresentare, ce lo conferma la sensazione che tutto avvenga in un mondo ovattato, privo di suono ove gli individui sono chiusi nella loro incomunicabilità.
Angelo Calabrese, “Documenti Oggi” febbraio-aprile 1976

C'è forse un atteggiamento che evidenzia questo artista... ed è da rintracciare nel fondamento della sua pittura che è costituito da un elemento divenuto dal dopoguerra in avanti nell'arte: il gesto. Il gesto è l'azione della pittura, il filo sensibile e invisibile che lega la mano dell'artista alla tela, l'energia che si esprime sulla tela. La gestualità denota sempre un'urgenza espressiva, un furore creativo, un impeto che guida o devia il colore.
“Tracciare segni sulla tela in modo veloce, senza ripensamenti, liberando l'energia intellettuale che possiede, significa per l'artista fare della pittura gestuale” scrive Simone Ricciardiello. La velocità diviene una connotazione di questa pittura libera e quasi in stato di ebbrezza. L'input che parte dal suo cervello si trasmette al plotter (il pennello nella pittura non “da cavalletto” perde la sua accezione etimologica) passando attraverso il braccio, l'avambraccio e la mano che smettono di essere semplicemente segmenti di passaggio c/o trasmissione del segnale per diventare insieme partecipi dell«atto» di possesso della tela la quale, non più passiva verticalità, interagisce con l'artista che a sua volta le gira intorno, l'aggredisce da tutti i lati, la rovescia. Il rapporto con la tela diviene attivo, la superficie perde il suo valore esclusivamente bidimensionale per entrare in campo come protagonista, le vibrazioni del corpo dell'artista si trasmettono alla tela. “Ma il GESTO nell'arte significa anche il momento della creazione, per estensione, la messa in opera dell'idea”. Questo momento è il momento individuale, in cui si configura un'immagine personale, in cui ogni artista sceglie un territorio fantastico.
Nelle opere di Simone Ricciardiello appare spesso un elemento che è segno e colore insieme e che ricorda la forma del fulmine. Questo elemento allude forse al gesto istintivo, alla rapidità del gesto, alla velocità che diviene un connotato essenziale di questa pittura. In fondo però Ricciardiello pur in questa pittura di tipo libero, gestuale, mantiene un anima da scultore, sempre interessato all'oggetto e allo spazio. Il quadro è un racconto che parte da ricordi che però non è necessario ricostruire, l'idea viene poi filtrata nella memoria e il significato risulta poi comunque annullato dalla mescolanza di materiali. La pittura è complicata da elementi aggettanti che costituiscono un tentativo per uscire fuori dall'opera, tentativo quasi messo in atto con il volo di un piccolo aeroplano in fuga dalla superficie. Lo spazio che tende all'infinito è variegato dall'uso del tratteggio, poiché il colore non è più dato come stesura a larga macchia. In definitiva la pittura di Simone Ricciardiello elude la bidimensionalità della superficie per presentarsi come oggetto che coagula diversi materiali, realizza un incrocio tra astrazione e figurazione e si pone in relazione con lo spazio.
Laura Cheubini
Presentazione a catalogo mostra Centro Di Sarro, 1990

"RIcciardiello in concerto" a "Studio Inquadrature 33" rappresenta la felice sintesi tra una acculturazione antica -che sarebbe più giusto definire "sentimento"- e l'analisi svolta su di essa, quasi a verifica di una coincidenza, a livello estetico, di due momenti diversi d'arte e di creativita'.
Il tema è la musica, lo strumento il pianoforte. Simone Ricciardiello ne legge in chiave visuale non solo i segni, ma anche la dinamica e la meccanica, portando suono, pentagramma e scala ad una purissima e lucida connotazione iconica. L'oggetto d'amore si trasforma così in misterioso territorio da percorrere -è il caso di dirlo-nelle sue riposte risonanze, nei labirinti e nei percorsi geometrici che si trasformano in virtuali planimetrie e progettazioni urbane dal cromatismo luminoso, dove l'inserimento di materiali extra-pittorici non riesce ad interrompere l'unita' dell'immagine.
Una ricerca che, da pulsione mnemonica, si fa mentale peripezia all'interno del non visibile; ma nel caso di Ricciardiello, l'invenzione insiste su quella linea privata e autobiografica, per cui i riferimenti a Veronesi e Perilli fanno solo da comuni termini linguistici e gli stessi moduli compositivi neo-concreti sembrano cedere di fronte alla sua intensa motivazione poetica.
Giuliano Serafini, Eco d'Arte Moderna, 1980
Giuliano Serafini
Eco d'Arte Moderna, 1980

IL CONTATTO CON LE COSE PER RITROVARE IL VISSUTO
Appena entrati nello spazio raccolto della mostra (“Sognerie Metropolitane”, all’interno della cinquecentesca chiesetta di S.M. Maddalena di Tiene, sede della Galleria Civica) prende inconfondibile il senso di straniamento. Gli oggetti ad inserto che Simone Ricciardiello preleva dalle forme di una memoria personale e domestica, ad affrontare la scena dell’opera, sono disposti a migrare da una tela all’altra, a intercambiarsi, più per destrutturate che per organizzare.
Care piccole cose sapute, di stanze familiari: la cornicetta ovale, l’angioletto da parete, la testina d’arredo, le mattonelle di casa, la mini-consolle che tanto ricorda gli altarini ironici di Lucio Del Pezzo anni ’60 napoletano come Ricciardiello dedicati al repertorio metafisico; oltre a tutto quel non nascosto bagaglio di gioco (le piccole suppellettili di gioco di bambole, l’aeroplanino, i soldatini) nuovo codice linguistico da “partecipare”, appiglio alle sensazioni dello spettatore non più escluso dal costruire un suo progetto, all’interno della sua personale esperienza e dentro lo spazio dell’opera.
Forse è nel gesto del drappo rosso pendente sul bordo della tela, il simbolico “canovaccio” teatrale su cui costruire questo nuovo intreccio, come processo aperto o provvisorio. Vigilata da relitti di maschere, bianche o nere (certo i mascheroni barocchi di familiari case partenopee), talora una forza implosiva interrompe la forma tradizionale del quadro, ne infrange lo schema: quadro interrotto, a far da sipario al vuoto rimasto, reale o disegnato che sia; quadro a trittico; quadro nel quadro.
In questa deriva, sono quegli oggetti del quotidiano a trattenere la fuga, a produrre nuovi equilibri garantiti dall’uso inequivocabile del filo a piombo, segnale di un centro prospettico privilegiato. La pittura si guarda. (La pittura si è sempre guardata). Non basta più a se stessa. Si cerca nel rovescio della tela, nelle “uscite” e nei “rientri” lungo esili ed elastiche applicazioni di fili metallici pronti a vibrare. Mette in scena il suo mestiere (le mani a palmo aperto dipinte nell’artificio di un teatrino dei burattini) di fare l’arte “manipolabile”.
La pittura esiste per Ricciardiello in quanto sistema di linguaggi compatibili, costruzione di un codice in comune con lo spettatore. Ricercato talvolta anche nell’ammiccante e attraente accostamento astratto figurativo, che ricorre gradevole nelle sue tele. La pittura come costruzione, in senso architettonico, delle strutture; la somma di segni per accumulazione e interrelazione; il recupero dello sperimentalismo; l’uso dei materiali. L’opera “in progress”, spunto di riflessione più che di contemplazione. Un’arte per intonarsi al coro degli “altri”, affermandosi ad ogni momento, ad ogni segno del divenire individuale e collettivo. Ricercata nei contrasti, negli opposti (interno-esterno; pieno-vuoto; reale-fittizio…). Un caos necessario per ritrovarsi a stretto contatto con le cose, con il proprio vissuto, vera entità complessa e fondante.
Floriana Donati
Il Giornale di Vicenza, 20 maggio 1992

LA MEMORIA (musicale) DI RICCIARDIELLO
Costruzioni pittoriche, elaborate con precisione, con un lavoro paziente e meditato, traggono vita dalle mani di Simone Ricciairdiello.
Dalle mani di Ricciardiello vengono fuori mediazioni, o meglio si determinano supporti culturali basilari, per impostare un discorso volto a centrare e a sintonizzarsi sul rapporto esistente tra musica/lità e pittura.
Meno interessato a cogliere la musicalità del colore Ricciardiello si pone, però, a precisare le strutture di uno strumento musicale e le proiezioni, in linee e segmenti, delle proprie, "intime", elaborazioni musicali.
Ricciardiello intende non perdere i contatti con la musica, a cui è legato psicologicamente, tracciando di strumenti familiari il disegno, non lasciando, così, cadere il legame che lo unisce al "suono" e nel contempo con rigorosi tratti astratti riesce a sviluppare il suo estro, a non rinunciare ad un immaginario di taglio personale.
"Nel suo fondo di memorie" l'operatore partenopeo serba un indimenticabile amore per la musica, ed ora portato alla pittura, alla grafica, al degign, si riavvicina ad essa tracciando uno spaccato segnico che si sostanzia di richiami musicali e che vive una sua dimensione "di ritorno" nettamente ludica.
Le "composizioni" tendono a sostenere due passioni: la linea musicale e la linfa prestigiosa di un nuovo astrattismo.
Mi sembra indispensabile (dopo aver focalizzato il centro della ricerca di Ricciardiello che parte dall'irrinunciabilità del mondo musicale e che, d'altronde, si mutua nel non meno affascinante "plafond" astratto) ricordare che un equilibrio di necessità emative e di curate ragioni è stato guadagnato.
Le opere di Ricciardiello possono affrire più vesti di lettura. Quella musicale con caratteri onirici, quella astratta con punti di aggancio nella purezza della geometria.
Una terza, e più completa, lettura si matura e si riflette, per qualche attimo in più. Musica e subconscio "toccano" la razionale predisposizione dell'artista a cogliere con precisione aspetti del reale. Musica e subconscio tramutano la loro attesa in ricca sorgente di stimoli. Questi, poi, sono incanalati e omogeneizzati dalla volontà di Ricciardiello su di un piano di chiave neo-astratta.
..... O credete che ci possano essere altre letture? L'arte, in fondo, vive per la sua non univocità.....
Maurizio Vitiello, settembre 1980

Le recenti opere di Simone Ricciardiello e parliamo soprattutto della produzione di questi ultimi mesi, presentano, nella loro unità stilistica, una ritrovata intenzionalità che se pur prima era evidenziata dalla contrapposizione di due momenti: il naturale e l'artificio (si guardino appunto le opere dove il lato naturale era messo a fuoco attraverso una illuminazione circoscritta alla porzione del vero riportato -una mano, un paesaggio ecc.- quale momento chiave -quasi giustificazione- del contrappuntismo struttivo dell'opera) ora, come sopra accennavo, il dato naturale, o meglio il suo riporto, trova una sua esemplificazione nello stesso tessuto di tutta l'opera.
Con questo atto operativo non è che Ricciardiello abbia rinnegato la realtà esistente, ma ha voluto, attraverso una rielaborazione, presentare e presentarci quei valori, allora apparentemente didascalici in contrapposizione ad una razionalità meramente costruttiva, in una sola unità dove esiste un'attualità che si evidenzia nel flusso del segno, simbolico e non, quale mutuazione mentale della concretezza della sintesi esplicita tra i rapporti, o se si vuole dei contrasti, tra la realtà e l'estetico, tra il dato esistente appunto e la filtrazione che se ne può ottenere.
Questa soluzione è data da Ricciardiello in una unità conclusiva o meglio in una sorta di accertamento costante (segno-struttura-campo) in cui la forma è motivazione espressiva implicita al contenuto, che non è sacrificata per una sorta di privilegio distaccato (il rappresentato esplicito: la figura o parte di essa da un lato e dall'altro la sua rielaborazione), ma trova nella sua unità, appunto, il nesso di una esperienza colta nella unità degli atti della vita stessa, nelle sue implicazioni che spezzano o alterano gli equilibri raggiunti.
L'oggettualità visiva di questo nuovo modo di offrire la realtà, che tiene conto anche di ricerche similari, si pensi appunto alla scansione del tempo nell'ambito filmico o anche ai ritmi musicali -come lo stesso autore ci tiene ad evidenziare- si presenta non tanto quale supporto di un mero formale, ma anche e soprattutto quale evento di relazione soggettiva in rapporto ad una disciplina razionale, che consente a Ricciardiello la costruzione di un mondo visivo non assoggettato alla realtà naturalistica.
Ciro Ruju, 1976

Nella rivista pubblicata da Gerardo De Simone, a fiancheggiamento delle iniziative della sua galleria Lo Spazio, Simone Ricciardiello, ad esplicazione della mostra che tiene nella citata galleria, scrive:"succede che tutto ad un tratto ti accorgi che fai pittura con le cose". Questa possibilità di servirsi degli oggetti o meglio dei segni oggettivati per esprimere immagini e colori non è una scoperta di Ricciardiello: in nome della poetica dell'oggettività ha esordito una delle riviste culturali più importanti di questi ultimi venti anni, "Il Verri": l'oggetto è diventato un costante e ossessivo punto di riferimento in varie tendenze, dall'"école du regard" alla "nouvelle critique"; il linguaggio degli oggetti è uno dei campi d'analisi preferiti dalla semiologia (Barthes, Baudrillard); l'oggetto, per sineddoche o per metafora, ha acquistato dovunque una grande importanza come simbolo della condizione di oggetto dell'uomo.
Ma ancora prima degli anni Cinquanta, della ripresa cioè della poetica degli oggetti e della più generale attenzione per i medesimi, già nell'avanguardia storica, dal futurismo al surrealismo, l'osservazione per l'oggetto si era andata enfatizzando.
Negli anni Venti, addirittura, I. Ehremburg dà titolo ad una rivista, che dirige insieme con Lisickij a Berlino, di "Vesc" (L'Oggetto).
Ehrenburg, a sua volta, riprende un programma già lucidamente proposto dal costruttivismo russo, ricco ancora di valenze per i nostri giorni, come ammette G. Kraiski, per la ipotesi dell'elaborazione di un linguaggio razionalizzato rispecchiante la condizione di vita dell'uomo moderno.
Ora, proprio ai costruttivisti russi, che d'altra parte cercavano degli equivalenti sul piano artistico e intellettuale delle pianificazioni e delle programmazioni della NEP sovietica, si richiama il progetto di Ricciardiello di costruire uno spazio, di servirsi di un sistema segnico non più sentimentali, ma rigorosamente rispondenti alle dimensioni che da Sant?elia a G: Benn e oltre si sono proposte nel Novecento come miti carichi di suggestione.
Ma Ricciardiello non si limita a riprendere: l'insieme della sua operazione si fonda sulla consapevolezza dei rapporti e su una notevole serietà di ricerca.
Ugo Piscopo, "Paese Sera", maggio 1978

L'arte ha nei confronti del concetto di slang un rapporto di dipendenza. Molto nell'arte é infatti gergo, a partire dal linguaggio specializzato e talvolta addirittura criptico, necessario per parlarne, fino a giungere alle stesse procedure impiegate per conferire all'opera forma espressiva, ossia il codice.
Culturalmente tutto ció é un fatto acquisito che viene ormai dato per implicito, ma proprio per questo da parte d'un artista come Simone Ricciardiello, quotidianamente vincolato a misurarsi con le convenzioni peculiari della comunicazione visuale, la scelta d'una simile direttrice come elemento portante per una propria mostra appare singolarmente interessante ed impegnativa.
Indubitabilmente Ricciardiello é ben conscio del fatto che rammentare all'osservatore della sua opera la sottintesa natura gergale dell'espressione artistica significa convogliarne la fruizione verso un'analisi particolarmente attenta appunto dei codici impiegati. Evidentemente dunque l'artista non manifesta timore nell'invitarci ad un uso interattivo del dipinto, portando l'attenzione del fruitore sulle proprie personali strutture creative e rappresentative. Così facendo egli mostra le proprie carte, rinuncia all'opzione piú sicura e tetragona della mitizzazione del lavoro artistico e si pone in una posizione propositiva piuttosto che impositiva.
É una proposta intrigante, ma non agevole: quello di Simone Ricciardiello é uno slang estremamente sofisticato, composto tramite un uso del segno e del colore che definiremmo "sapiente", intendendo con tale definizione tanto la sapienza tecnica della manualità che un bagaglio semiologico evidentemente poderoso.
Nella sua pittura il codice della psicologia della forma é inframmezzato da quello della ricerca estetica. Silohuettes che ci sembra di poter riconoscere si sviluppano in enunciati spaziali, mentre la gergalitá accattivante dei colori sgargianti finisce per coinvolgerci in un discorso complesso sulla natura temporale dell'oggetto artistico, che mescola dinnanzi ai nostri occhi il linguaggio soggettivo della memoria con quello oggettivo e presente del dialogo fra opera e fruitore. Perché la produzione di questo artista discende in parte integrante dall'esperienza intellettuale della sperimentazione, che lo porta verso la sintesi d'un mezzo altamente evoluto.
L'apparente immediatezza delle opere di Ricciardiello, la loro efficacia, non derivano dunque da una gratuita eredità d'inconscio comune, ma da un'onerosa e meditata compilazione del lessico piú razionale, completo e corretto. Forte di simili basi l'artista puó offrire con sicurezza all'incontro col pubblico le proprie tele, i fogli, ma anche il proprio slang, impeccabile nella sua funzionalitá di codice lucidamente costruito. Una prova eccezionalmente significativa poiché, come chi scrive ha già inteso sottolineare anche in altre sedi, al di là d'ogni ambiguità filosofica e concettuale dietro cui sia possibile nascondere le eventuali carenze d'una scelta d'arte la pietra di paragone piú sicura con la quale valutare la personalità fattiva dell'artista é l'insanabile dicotomia fra dialetto ed idioletto, fra codice altamente personale ma perfettamente comprensibile ed inadeguatezza comunicativa. Cosí Simone Ricciardiello vaglia il proprio lavoro porgendo anche a noi il medesimo strumento col quale lui stesso lo saggia, consapevole d'aggiungere in tal modo ulteriore pregio ai valori di conoscenza tipici della sua pittura.
Alessandro Sisti
Presentazzione a catalogo mostra Galleria Due Ruote
Venezia, 31 marzo 1988

Simonetta e Davide dormono e noi in punta di piedi entriamo nello studio di Ricciardiello.
Siamo subito aggrediti, da un Don Chisciotte “gardeniano”, sgradevole, intermediario incapace tra Simone (il marito) e Anabella Dugo (la moglie).
Annabella afferma che si tratta di regalo non gradito, mentre accarezza con lo sguardo un fonografo a tromba dipinto di verde come per dire “quello sì”. Fonografo che ha tutta l'aria di un aristocratico fra pietre laccate, fiori di paglia e un paniere che pende carico di una pianta porta fortuna: “la miseria” .
Silenzio, riposo dei due figli, un cavallo a dondolo con le orecchie afflosciate per il corridoio, un arazzo aggressivo con una leonessa sanguigna, direi ebbra, stimolante, a guardia di oggetti ricordo, di libri, di un pavone di ferro laccato e degli ultimi “dipinti” di Ricciardiello.
Si slitta di necessità con lo sguardo nell'angolo dove una luce discreta ci ricorda che Simonetta e Davide riposano.
Pare che da tutta quest'atmosfera nasca una fiaba: tele non significate; tele appena segnate, scarne nel segno e nel colore si scompongono idealmente: vedi Firenze tutta cupola, tutta Arno, tutta David; ma il piccolo Davide dorme e della fionda almeno per ora non ha che farsene. Basta la stesura rosea primaverile a sottolineare un'emblematicità cromatica, per ravvivare una tela segnata, non disegnata, per riscaldare una “glacialità” pittorica che trovi in quasi tutte le tele, come per paura di consumare una castità che sta all'origine di ogni discorso.
C'è nell'opera di Ricciardiello un racconto sottile di una sessualità onirica non confessata, lievitata in immagini di donne nell'atto di svestirsi o misteriosamente in contemplazione di un “pupo” siciliano segnato ed evidenziato per una lettura senza equivoci.
Il dramma dentro le cose cresce all'apparire di un arabo indiscreto, tutto “fumetto” che ammicca prepotente, deciso, esoterico fra cose stagionate: le immagini quotidiane di ieri e di oggi. Un mondo che si fa “segno”, campo direi meglio fantasma di una realtà che pur si ripresenta in alcune figure di schiena, rarefatte in una scomposizione neo-geometrica-piana, come una negazione voluta della tangibilità.
Volontà serica del colore che si scioglie ed è partecipe della sostanza delle cose.
Contrasti di immagini concrete, spesso monocrome, decorativamente simboliche espresse in bende liquide da far pensare a certi tagli del giapponese nato nella prefettura di HIROSHIMA: HIDEO YOSHIHARA o a certi motivi dei bolognese Leonardo Cremonini per l'economia occupazionale dell'immagine.
Persiste un segno positivo dove la sensualità mentale svapora o si concretizza in alcune zone dei racconto per ritrovarlo scandito in “negativo” con un potenziale di suggestioni capaci di erodere l'immagine e restituirla come purificata in una linearità iridescente...
I racconti di Ricciardiello si snodano in una angoscia di “saraceni” che per vie sotterranee si affacciano come eroi negativi e positivi: “Prima parte di un suicidio”, “Progetto S”, “Oum el Bim”, tele queste per un espatrio dalla realtà quotidiana, per immettersi dietro file di emigrati mentali in cerca di contenuti di vita che non troviamo nell'area partenopea.
Problematica che si fa sempre più prepotente in “Anomalia” dove il colore acquista intensità e la composizione si scioglie in un pluri-racconto onirico-realista: un concretizzarsi dunque di percezioni musicali in immagini segniche e cromatiche che lasciano aperta l'esperienza di Ricciardiello per la ricomposizione dei frammenti immaginativi di un concreto recupero della nuova figurazione.
Giuseppe Antonello Leone, febbraio 1976
per la mostra alla Galleria Il Triangolo, Napoli

...L'intento di Ricciardiello è quello di produrre un oggetto che si ponga nei confronti dell'ambiente in modo estremamente provocatorio nonché di considerare che lo spazio oggi non è più lo spazio del passato; non è più lo spazio della bellissima invenzione del Rinascimento per cui la prospettiva, fantastica, straordinaria, la prospettiva lineare riusciva a dare immagine a quello spazio. No, oggi lo spazio è il laboratorio nel quale noi possiamo verificare tutte le componenti meccaniche ed elettroniche. Signori, se noi non sappiamo questo e se non partiamo da questo, noi siamo completamente fuori dal tempo e quindi anche fuori dalla possibilità di produrci secondo quella che è la conoscenza e quindi adeguatamente il nostro essere in questo mondo.
C'è ancora un elemento da citare che è molto importante: Quello della considerazione delle famose "tecniche" del far arte.
Vi sarete acoorti tutti che tutte le avanguardie, lasciando stare quelle dell'inizio del secolo, parliamo di quelle che si muovono dal '45 in poi, e se vogliamo restare in Italia i due famosi gruppi, ideologicamente impegnati, quello del Fronte Nuovo delle Arti da cui sarebbe uscito il gruppo Forma, dove se il primo faceva dell'ideologia il presupposto per ogni mezzo espressivo, il secondo si disinteressava completamente dell'ideologia (Consagra era uno di quelli) per rafforzare invece i valori della forma. Perché l'arte è soprattutto un fatto formale. Da lì in poi noi abbiamo visto i movimenti più straordinari, dalla Pop Art che proviene dall'America all'Arte Povera, dal Concettuale alla Body Art nella quale si afferma l'esteticità a scapito dell'artisticità.
Bene, questo artista invece riafferma, vuole stare all'interno del significato di quell'"artistico", dove artistico sta per impiego, elaborazione, la conoscenza, la perfezione delle tecniche che permettono all'oggetto di esistere.
Simone Ricciardiello è un ragazzo, un giovane uomo oltre che molto intelligente, molto caustico. Mette sempre costantemente sul tavolo della verifica e riverifica tutto quello che è, cioè la contemporaneità con la sua cultura, con le sue ideologie, con tutti quanti i suoi processi. Lo mette sul tavolo e lo discute con grande ironia, un'ironia che arriva ad essere caustica e a picchiettare su chi volesse soffermarsi su una apparente ingenuità, visto che dalle sue opere fuoriescono sempre degli elementi, vedi aeroplanini, soldatini oppure mezzi volti di un mondo classico, un mondo che non è mai dimenticato, perché noi mediterranei abbiamo questa grande tradizione che molte volte pesa sulle nostre spalle.
Bene, Simone adopera questi mezzi apparentemente ingenui e facili, ma in effetti solo suadenti, per portarci all'interno del discorso molto preciso che fa: non c'e' niente che possa rappresentare un punto di arrivo, è sempre tutto in fieri, cioè un divenire..
Luigina Bortolatto, giugno 1989

ECCO LA "MAIL-ART" UN'IDEA PER LA VITA
Il 14 novembre u.s. è stata inaugurata alla Chiesa di San Giacomo e a Villa Lattes a Vicenza un'interessante mostra allestita secondo la tecnica della Mail-Art (o arte postale) sul tema "Un'idea per la vita".
Essa è stata ideata e realizzata da Simone Ricciardiello e dal suo Gruppo Creativo con la collaborazione di Enti Pubblici ed Istituti scolastici.
Alla Chiesa di San Giacomo è esposto il materiale grafico, pittorico, fotografico e scritto inviato, su un rettangolo di carta di uguali dimensioni per tutti, da artisti, uomini di cultura e politici.
Ognuno di essi ha risposto in modo originale ed immediato, affrontando, secondo la propria sensibilità, un argomento delicato e profondo come quello della vita.
Mai si è tanto parlato della vita nel senso di qualità e di difesa, come in questi tempi, nei quali essa è insidiata continuam,ente in modo più o meno subdolo o palese a tutti i livelli.
Non è possibile qui tentare un esame critico degli interventi, anche se il prof. Salvatore Maugeri, con la sua consumata maestria, è riuscito a trarre durante la presentazione molti spunti e molte idee dai cartoncini esposti.
Non si tratta infatti di un'esposizione collettiva di pittori che si riconoscono come appartenenti ad uno stesso filone artistico, ma semplicemente di persone del mondo dell'arte o della cultura che hanno sentito profondamente il tema proposto e ne hanno dato un'interpretazione immediata e spontanea.
Queste persone sono molto numerose e non sarebbe giusto nominare qui soltanto le più famose o le più conosciute tralasciando quelle che,non altrettanto note, hanno dimostrato tuttavia di essere ugualmente pronte e sensibili nel dare il loro contributo.
A Villa Lattes (sede della Circoscrizione n.6) sono stati raccolti gli interventi degli studenti degli Istituti d'Arte del Veneto anche questi eseguiti su identici rettangoli di carta.
I giovani più attenti e abituati ad essere aderenti al tema proposto hanno dato in modo molto più chiaro e leggibile il loro messaggio per la vita.
Dai numerosi cartoncini pervenuti si possono individuare due filoni precisi. Quello della speranza e quello della paura.
In quello della speranza si possono raggruppare tutte le risposte che hanno rappresentato la vita nelle forme del bambino nato e nascituro, dell'acqua limpida che scorre, dell'aria pura, del cielo azzurro, delle piante che crescono, dei fiori che sbocciano, di tutto ciò insomma che apre il cuore alla gioia e alla serenità.
In quello della paura si possono raggruppare quelle che hanno rappresentato su sfondi cupi e neri immagini di campi, fiumi e mari inquinati da residui chimici, plastica ed altri elementi non biodegradabili, bambini, giovani, adulti condannati a morire a causa di carestie, guerre, sentenze crudeli, mafia, droga, abbandono, solitudine.
Questa parte della mostra è senz'altro la più toccante perché è quella che fa capire quanto i giovani siano aperti ed attenti ai fenomeni ed agli avvenimenti della società in cui vivono.
Quando infatti hanno la possibilità di esprimersi essi dicono chiaramente ciò che pensano del mondo degli adulti dandone spesso un giudizio molto amaro.
Se dunque questa mostra deve essere, oltre che un'esposizione di lavori, che soprattutto in questa sezione sono stati fatti con grande impegno, anche uno stimolo per gli educatori ed i politici sarà opportuno trarre qualche suggerimento dalle risposte pervenute.
Per quanto riguarda la speranza bisogna che i giovani possano nutrirla anche con il passare degli anni e ciò potrà avvenire se gli adulti li aiuteranno a viverla nel modo migliore allontanando i pericoli che alimentano la paura.
I giovani ci guardano e ci giudicano, cerchiamo di ascoltare e di interpretare i loro messaggi fatti in modo talvolta balbettante, sommesso, urlato o sgrammaticato, ma inviati sempre come richiesta di comprensione e di aiuto.
Comprensione ed aiuto che, se dati al momento giusto, potranno rendere per tutti più bella la vita.
Nella Chiesa di San Giacomo sono a disposizione dei visitatori dei cartoncini ed un tabellone per ulteriori interventi.
La mostra si concluderà il 20 dicembre.
Maria Carolina Pellizzari.
Pagina della cultura de "Il Sospiro del Tifoso" del 15 novembre 1987.

ARTICOLI SCRITTI DALL'ARTISTA
E' impalpabile ma si può pesare. Esiste, è nell'aria che ti assale. E' il senso compiuto della disperazione quella strana cosa che s'insinua tra i pannelli della Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano. Il brivido che percorre uno ad uno i processi spinali delle vertebre è frutto dell'incubo visivo che le tele, quelle piccole tele, ti procurano.
E il colore? Ma hai visto quel colore? I bruni e le terre accrescono lo stato d'ansia, che ti attanaglia. Gli interni di Recalcati, quelli degli anni '60 e '61, sono la traduzione pittorica degli incubi filmici di cui è popolato il nostro sonno angosciato.
La pellicola, quella tipica da film muto, scorre veloce sulla nostra retina, è segnata irrimediabilmente dall'usura del tempo e irrimediabilmente perduta. E con essa tutto il suo contenuto. E allora ci lasciamo vincere dalla tristezza, la stessa che ci assale quando pensiamo alla nostra giovinezza che non ritornerà più, e con essa tutti i momenti belli già vissuti. Sì, parlo di quel démone di Antonio Recalcati e della mostra che il Comune di Milano gli ha allestito in Palazzo Reale dal 1° ottobre e conclusa il 22 novembre di quest'anno (1987).
Nella Sala delle Cariatidi coesistono due artisti, due culture e due generazioni. E c'è anche la vera storia sociale dell'arte, quella che non è scritta da nessuna parte e che nessuno mai scriverà. La vicenda di Recalcati va letta attraverso le "tele"; se tutte le vicende dei pittori si leggessero attraverso "l'analisi del supporto" si scoprirebbero cose davvero interessanti.
Le tele di Recalcati che più mi interessano sono quelle che vanno dal '58 al '62. Le avete osservate attentamente? Sono del tipo che si vendono a pochi soldi nei negozi di colori e cornici: preparazione ad olio grossolana, fascia da 4 o da 5 con chiodi a testa grossa in vista.
Sono le "tele" che la sanno lunga sulle difficoltà nelle quali si muove solitamente l'artista, sia di ordine operativo che esistenziale. Sono però anche il "campo pittorico" di Recalcati, quello dove egli per la prima volta appoggia una parte del proprio corpo. Ciò mi riporta con la mente ai primi anni Sessanta.
Un vecchio fascino tutto ancora, oggi, da scoprire. Allora avevo circa sedici anni e respiravo l'aria "infetta" di Via Costantinopoli, luogo d'arte e di perdizione di Napoli, ma avevo visto le opere di Recalcati, del quale già si parlava. Lo shock per me, come per tutti, fu forte allora e tale è stato ancora oggi che le ho riviste. Erano gli anni eroici in cui i critici si sfidavano a duello e gli artisti si scazzottavano ogni volta che si affrontava l'argomento "figurativo o astrattismo?". Egli seppe in modo geniale e irripetibile risolvere il machiavello entrando con il suo corpo nella pittura e quindi nella tela.
Su questo "gesto" Recalcati potrà vivere di rendita per tutto il resto della sua vita.
Con i primi successi arrivano più possibilità e il pittore si "distende". Ecco i primi telai a fascia 8 e tela belga, ecco i primi viaggi all'estero che però non possono risolvere i problemi esistenziali di Recalcati.
Il suo inferno è l'Italia, è di "quella" società che ha bisogno, con tutte le sue contraddizioni, i suoi amori caldi, i suoi odi profondi. La Francia è lontana dalla sua disperazione e lo è di più l'America. Le bellissime, grandissime e costosissime "tele" dal '78 in poi ci offrono un altro Recalcati: il démone però è rimasto imbrigliato tra i telai degli anni Sessanta.
Qui c'è l'iperrealista che dipinge mani che spezzano pennelli (ma sono lacrime di coccodrillo), negazione dell'essere; qui c'è l'illustratore che con grande perizia tecnica vorrebbe stupirci mostrandoci una realtà sociale tanto diversa dalla nostra, anche quando si deforma perché riflessa da una pozza d'acqua piovana.
No, grazie Antonio, non ci interessa. Ci hai già stupiti una volta riuscendoci in modo sublime perché unico. A questo punto per noi sei un angelo, un angelo vittorioso che si aggira nelle ultime due sale delle Cariatidi. Il démone è rimasto nella prima sala per entrare nelle ossa dei visitatori sbigottiti ed affascinati.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, terza pagina, 11 dicembre 1987
La mostra di Van Gogh in corso a Roma ha posto un'urgenza analitica sul mito dell'artista nella cultura contemporanea, suscitando interrogativi cui sarebbe forse opportuno dare una risposta. o quantomeno prendere in esame.
Erano anni, ed erano mostre, che la Galleria Nazionale d'Arte Moderna non riusciva a suscitare tanto interesse intorno ad una sua proposta. Il ricordo di tali resse al di fuori dei suoi cancelli e delle file chilometriche per poter. accedere all'interno, si perdeva ormai nella notte buia della storia di questa gloriosa istituzione.
Il suo risveglio quindi legato al rinnovato interesse per un pittore che in quest'ultimo anno ha venduto fiori a caro prezzo.
Ma in sostanza, che cosa ha spinto tanta gente a sostare per ore sui gradini di viale delle Belle Arti? Solo il fascino di un esponente rappresentativo di un movimento artistico oggi in piena riscoperta? Solo l'opportunità di "toccare con mano" l'opera di colui che è riuscito, in morte, a vendere una sua tela per una cifra che risulta difficile anche scrivere, oltre che quantificare. Nossignori, la verità è che l'immaginario collettivo è attratto dal mito dell'artista maledetto. Oggi più di prima.
Non è un caso infatti che il battage promozionale della mostra abbia calcato la mano sull'aspetto tormentato della «vicenda» Van Gogh, mettendo in luce l'ansia, la sofferenza, l'autolesionismo, la follia dell'uomo-artista.
In una società, quella moderna, in cui il benessere diffuso gioca un ruolo determinante sui riflessi emotivi del singolo, il ricorso al "mythos" risolve il conflitto tra sogno e bisogno. Il nostro alter-ego ci spinge a ricercare in una dimensione parallela tutto ciò che di trasgressivo è in noi. Ciò spiega anche come sia possibile il grande consumo di Rambi e derivati in una realtà sociale che per altri versi tende a condannare la guerra.
E' l'eroe al negativo ad avere il sopravvento, quello dalla "vita spericolata come Steve McQueen" per dirla alla Vasco Rossi o come quello cantato dalla rockstar Patty Smith ove "oh Arthur, Arthur, siamo nell'Ade abissino, faccíamo l'amore, fumiamo, ci baciamo...» la citazione è quanto mai chiara. Rimbaud infatti è, qui preso a simbolo dai giovani ribelli e dai disadattati. Il suo peregrinare da paese a paese, l'affannosa ricerca del «vero io», la stressante tensione visionaria lo accomunano a tutta la categoria dei poeti e, per estensione, degli artisti maledetti. La sola differenza sta nell'indice di gradimento che ognuno di essi riesce ad ottenere sul palinsesto della cultura. Tra Verlaine che spara contro Rimbaud col quale ha litigato e Van Gogh che rivolge il rasoio contro se stesso dopo l'ennesimo scontro con Gauguin (tagliandosi l'orecchio), la gente preferisce Van Gogh. Perchè è l'eroe all'íncontrario, un masochista che si autopunisce, che ci fa tenerezza e che ci sentiamo obbligati a proteggere col nostro senso di solidarietà.
Nell'epoca delle telenovelas si guarda ancora all'artista con gli occhi della bohéme. Mimi dalla gelida manina non abita più nella soffitta del povero scrittore che è costretto a dare via i suoi quadri in cambio di una zuppa di fagioli. E' questo uno dei tanti equivoci della cultura massificata.
Oggi l'artista è un manager inserito nella realtà del suo tempo, un professionista attento alla programmazione del suo lavoro e alla collocazione del suo prodotto. Non dipinge solo «quando ha l'ispirazione», ma tutti i giorni e in uno studio riscaldato. E' curato nell'aspetto, deve esprimersi correttamente ed essere in grado d'intrattenere rapporti con addetti e istituzioni.
Eppure, in tempi di fiere dell'arte, di politica museale, di ampie ed esaurienti mostre monografiche e didattiche, c'è ancora chi (e fra i tanti, molti professionisti), pur sapendo tutto su fondi d'investimento, obbligazioni e cct; pur esprimendosi in bit e in logo, conserva un'idea distorta della figura dell'artista. Ritiene infatti debba avere barba lunga e incolta, essere possibilmente sporco, indossare abiti dimessi, condurre un'esistenza crepuscolare e tormentata, circondarsi di figure equivoche ma allo stesso tempo vantare conoscenze illustri. Un isolato volontario, irascibile, impetuoso che possiede il démone dell'autodistruzione.
Così nascono i «vù cumprà» dell'arte, coloro che, speculando su quest'immagine, ne assumono i connotati più folcloristici; alcuni per spacciare a cifre ingiustificate opere senza alcun valore altri per risolvere in qualche modo i loro bisogni quotidiani. E se questo può costituire motivo attenuante, non può essere accettabile. Quando la sottocultura comincia a produrre "fenomeni" tanto da voler far passare per genio chi è solo un esaltato, allora è tempo di preoccuparsi.
Sarebbe quindi finalmente ora di uscire dalla logica subdola e deviante che al valore estetico dell'opera d'arte sostituisce la curiosità morbosa per il «personaggio» autore.
Una logica assurda che mette a nudo situazioni scoraggianti: mentre a Roma andava deserta una stupenda mostra di Giulio Turcato; a Firenze restavano invendute tutte le opere di una mostra di Vedova, contemporaneamente, a Palermo, in un'elegante galleria del centro, la gente faceva la fila sotto la pioggia per entrare e comprare per centinaia di milioni tutti i quadri di un certo Luciano Liggio, dicono, mafioso.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, 21 marzo 1988.
Arte Fiera di Bologna ha festeggiato il suo quindicesimo compleanno con una nota di amarezza nel cuore; i venti caldi in arrivo dal Golfo, pur se raffreddati dalla latitudine emiliana, hanno smorzato la voglia di festa rendendo tuttavia più composta, più sublimata, la partecipazione del pubblico che ha percorso, senza l'abituale frenesia delle scorsa edizioni, le corsie dei padiglioni di questa manifestazione che, quasi per simbiosi programmata, si è data un tocco di sobrio maquillage.
Decisamente si può considerare un colpo a sorpresa che sterza e privilegia l'aspetto qualitativo di questa Fiera che oggi non ha più nulla da invidiare, né organizzativamente né logisticamente, alle grandi fiere internazionali (Fiac di Parigi; Arco di Madrid; Basilea) nel cui circuito potrebbe meglio essere inserita se forse non fosse stata interrotta nel '79.
Questa edizione '91, tenuta dal 25 al 28 gennaio scorsi, ha puntato sulla partecipazione di 328 espositori, dislocati su 25.000 mq, provenienti dall'Austria, dal Belgio, Brasile, Francia, Giappone, Gran Bretagna, Jugoslavia, Germania, Ungheria, Spagna, Svizzera, Usa e ha giocato una carta vincente con l'invito alla Polonia cui è stato dedicato un percorso di largo respiro.
Ciò dimostra l'attenzione verso le trasformazioni storiche in atto da parte dell'organizzazione che, in sintonia con le istanze di libertà provenienti dall'est europeo, ha intravisto la possibilità di presentare la sofferta ricerca artistica di un popolo fino a ieri tormentato e che solo una legge dei 1976 del Ministero della Cultura polacca ha autorizzato a commercializzare. Non si può, a tal proposito, non menzionare la bellissima e inquietante sala di Jòzef Szajna ordinata da Jerzy Madeyski al padiglione polacco dell'ultima Biennale veneziana.
Sembra utile sottolineare che la revisione e lo snellimento di alcuni aspetti organizzativi hanno dato la possibilità alle gallerie presenti di predisporre settori monografici che, mentre hanno consentito una più facile lettura delle tendenze in atto, hanno evitato l'eccessiva parcellizzazione dello spazio espositivo dei singoli stands. Stop quindi, in qualche misura, alle giovani promesse e largo agli artisti storicizzati tra cui spiccano, con differenti motivazioni, Dorazio (riflesso fortemente condizionato dalla concomitante antologica della Galleria d'Arte Moderna li a due passi), Fontana e Perilli; Scanavino, Turcato e Capogrossi (per la spinta al rialzo delle loro quotazioni); Vedova e i vecchi e nuovi transavanguardisti (eco della recente Biennale). Per la cronaca, venticinque le gallerie del Triveneto presenti di cui una sola vicentina: l'Albanesearte.
Evidentemente. ciò è "un diretto effetto dello sboom del mercato, per cui galleggiano solo I quadri più pesanti" mi dice Concetto Pozzati che a Bologna e alla Fiera è particolarmente amato. Lo stato di ebbrezza innéscato da quando presso Christie's di Londra (31 marzo '87) si sono cominciati a vendere fiori a caro prezzo (leggi Van Gogh) ha invertito la direzione di marcia ripristinando il vecchio adagio secondo cui chi investe in arte deve prevedere medi e lunghi termini.
Fiori all'occhiello di Arte Fiera si possono oramai considerare il salone della grafica, teso a presentare nuovi artisti e a sperimentare nuovi materiali, e il salone della ceramica, giunto alla sua settima edizione, che raggruppa nei bellissimi padiglioni progettati da Kenzo Tange e Leonardo Benevolo, tra gli altri, le tendenze di ricerca emergenti di questo settore in continua evoluzione evidenziando come anche un materiale forgiato secondo affascinanti tradizioni di antiche sapienze artigianali può servirsi disinvoltamente degli strumenti più sofisticati dell'alta tecnologia computerizzata.
È infine da rilevare l'aspetto del dibattito culturale che periodicamente Arte Fiera propone sulle arti visive. Il convegno di questa edizione su «Libera circolazione e tutela delle opere d'arte nell'Europa del '93» ha messo a confronto le opinioni in materia di studiosi, economisti, giuristi, ministri e sottosegretari su di un argomento che coinvolge pesantemente il nostro paese proprio perché l'imminente scadenza del '93 ci coglie (allo stato attuale) impreparati sotto l'aspetto legislativo e deboli sotto quello organizzativo: la famosa legge 84 sulla catalogazione del ministro Facchiano è a metà strada e suscita ancora dubbi e perplessità.
Si può quindi giustamente ritenere questo un problema di estrema delicatezza che divide esperti e opinione pubblica, ma sul quale s'impone un immediato, coraggioso, intervento legislativo che sappia da un lato difendere l'enorme patrimonio artistico italiano da saccheggi indiscriminati, ma che sia anche in grado di permettere in modo organico e controllato il libero interscambio delle opere d'arte, indispensabile alla crescita culturale della prossima, rinnovata società comunitaria.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 31 gennaio 1991.
Quando nell'opprimente calura di un'estate come quella che stiamo vivendo ci ritroviamo a fare i conti con il mercurio del termometro che va su e con la pressione che invece scende giù, è dura fatica convincere qualcuno, fosse anche uno stakanovista dell'arte, ad andar per mostre; a meno che non gli prospetti una soluzione tipo Magritte, (a Palazzo Forti l'aria condizionata tira che è una meraviglia) oppure una esposizione "en plein air", di taglio estivo per intenderci. E' esattamente quello che ha pensato di fare l'Amministrazione comunale di Abano Terme nel dare il via alla seconda rassegna internazionale di scultura elie, dal 12 luglio al 30 agosto presenta opere di Richard Hess, artista di Berlino. Anche se purtroppo soltanto sette grandi bronzi sono stati collocati nei giardini del Kursaal essi possiedono una suggestione persuasiva che ti spinge a visitarla tutta questa mostra.
Fare scultura oggi è difficile forse più che fare pittura e ciò per due motivi strettamente collegati fra di loro: da una parte l'alto costo del materiale d'uso, primo fra tutti il bronzo (ma anche il marmo, la pietra, l'argilla); dall'altra la probabilità che l'uso stesso di tali fascinosi materiali possa Indurre gli artisti a produrre opere ripetitive e stancamente arroccate sui versanti di una tradizione oramai superata. E' quanto frequentemente oggi capita con scultori che attingono a piene mani dal vasto ancorché appetito repertorio del Novecento italiano, magari bravi tecnicamente ma miseramente privi di contenuti perché legati alla "tranche de vie" di un'arte intesa come imitazione di una realtà naturale. Tanto che proprio la necessità di sottrarsi al condizionamento della materia ha spinto gli scultori, nei primissimi anni '70, sul versante di una nuova oggettualità (grazie anche al contributo pop) mediante la sperimentazione di materiali alternativi (carta, alluminio, pIexiglass, metacrilati, espansi, oggetti di recupero) il cui uso ha estremamente ridotto, se non azzerato a mio parere, il confine tra pittura e scultura.
Ma per Richard Hess è diverso. Nato a Berlino nel '37, egli è figlio della guerra, appartiene cioè a una generazione che ha vissuto all'ombra del Muro tutte le contraddizioni di una società in piena crisi di valori, di Ideali e di ideologie. La ribellione verso gli aspetti più degradanti della società che egli ci segna a dito è poi in effetti il "quid" che gli consente di sottrarsi alla schiavitù dell'estetismo plastico tout-court.
Le radici? Con ogni probabilità si può affermare che sono da ricercare nella conoscenza della antica cultura dell'area mediterranea: l'incontro con la statica ieraticità dei Kouroi e delle Korai dell'arcaismo greco (vedi "Grande figura in abito da sera", "Sibilla"); con la frontalità della statuaria egizia ("Guardiano", "Piccola donna in abito da sera"); con gli scavi archeologici delle civiltà vesuviane ("Vittima I"; con la tipica posizione dei corpi e l'essenzialità dei tratti dell'arte etrusca ("Figura sdraiata III"), "Piccolo gruppo"),
Per quanto attiene invece allo sviluppo dell'opera di Hess, non resta che l'imbarazzo della scelta; la ricca antologia critica che accompagna il catalogo della mostra ci offre una innumerevole possibilità di accostamenti e analogie, forse anche troppe per un artista che, fatta salva la componente di eclettismo formale propria di chi subisce l'effetto mercato", persegue In maniera del tutto personale il mito dell'antieroe.
Sembra tuttavia utile evidenziare che forse più di Novecento e di Valori Plastici, le sculture di Hess risentono del fascino e soprattutto del clima dell'espressionismo tedesco, o almeno di quella parte di esso che «urla» la sua opposizione al conformismo e tende a una "verità di messaggio"; l'arte quindi come partecipazione alla resurrezione della dignità umana. Una visione che supera di fatto la concezione nietzschiana del superuomo andando a trovare un naturale sbocco nel Neorealismo, ove il rifiuto del "bello" fine a se stesso si accompagna convenientemente all'assunzione della realtà immediata attraverso l'affermazione dei ceti sociali subalterni. I personaggi di Richard Hess ci appaiono come reperti di un film di Rossellini o meglio di De Sica, eroi di un'antirealtà che si fa storia e nella quale riescono a riscattare la propria disperazione. "Lazzaro", "Grande pugile", "Vincitori e vinti", sono figurazioni di grande suggestione che, partite da temi cari a Balthus e Bacon, trovano una sbalorditiva assonanza, estetica quanto psicologica, con le opere di quelgruppo di artisti (De Stefano, Lippi, Jandolo, Perez, Di Ruggiero, Lezoche) che a Napoli animarono nella seconda metà degli anni Sessanta e oltre la meravigliosa stagione della Nuova Figurazione.
La vicenda umana di Hess ha lasciato nel suo modo di lavorare la materia una traccia indelebile, quasi un copyright, che procura alle sue creature un modellato rugoso, tormentato, tattile ancorché sensuale. Possiede infatti questo artista il potere di cristallizzare il «ricordo» delle sue mani sul bronzo, sull'argilla o sul gesso: presenza fisica di un impalpabile vissuto che resta per sempre tra le pieghe sinuose e provocanti, pur nella loro eccessiva debordanza, delle figure femminili che modella. "Eros e Thanatos", ingredienti di una realtà ai limiti dell'irreale che postula l'esigenza di una riflessione critica sulla valenza esistenziale di una società in piena crisi d'identità.
Simone RIcclardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 8 agosto 1991.
Una parola magica, molto più che una piccola perla incastonata nel cuore della vecchia Europa: Montecarlo. Una parola fatatache nell'immaginario collettivo ha sempre saputo suscitare grandissime emozioni e sentimenti contrastanti: Montecarlo come Casinò, Gran Premio di Formula Uno, Van Cleef, Paolo Conte, Gilbert Becaud, ma soprattutto la famiglia Ranieri, una eterna soap-opera che affascina la gente di ogni ceto sociale.
In questo piccolo principato, dove regna una bellezza a volte anche eccessiva, tutto è "aristocratico" o lo diventa a contatto con le slendide terrazze a belvedere sul mare, con le vetrine di Cartier e Valentino o con le aiuole sempreverdi che fanno da cornice agli alberghi del jet-set più esclusivo. L'arte, che aristocratica lo è per vocazione, trova qui una sua naturale collocazione: un contenitore di grande suggestione che mediante la sua valenza cosmopolita funge da enorme cassa di risonanza.
In questo scenario si colloca la III Biennale di Scultura organizzata dalla gallerista italo-americana Marisa del Re in collaborazione con la Société des Bains de Mer, all'interno dei festeggiamenti du Printemps des Arts che, inaugurata il 27 marzo, si protrarrà fino al 30 settembre.
Il turista in transito sulla Costa Azzurra è garbatamente, piacevolmente condotto sul luogo dell'esposizione da una sapiente orchestrazione civica che ha studiato un percorso obbligato che consente di ammirare le bellezze naturali ed artificiali di questa splendida città.
Arrivati all'estremità del Boulevard des Moulins, lo sguardo resta intrappolato da una sequenza di accorgimenti scenografici in rapida successione per essere infine letteralmente proiettato sulla facciata del Casinò, feticcio di curiosità, fascino e "perdizione". Le sculture sono sparse a grappoli ma comunque raggruppate in un ideale "perimetro di privilegio" ad eccezione di quella della "matricola" Bettina Werner (classe 1965) che divide con Elizabeth Strong-Cuevas il giardino antistante l'Hotel Hermitage.
Mischiate alle fontane dell'Alléè des Boulingrins, che ricordano i giochi d'acqua della Reggia di Caserta, si trovano le sculture di Robert Indiana, Cesar, Arman, Mimmo Paladino, Emilio Greco, Barry Flanagan; il superomogenizzato "Roman soldier" di Fernando Botero, artista colombiano di fama internazionale al grosso pubblico italianao (potenza dei mess-media) dalla massiccia sponsorizzazione del Costanzo Show; la splendida "Tebe in costume" (1982) di Giacomo Manzù (scomparso nel gennaio scorso) che ha saputo magistralmente coniugare la grande lezione rinascimentale con la sintesi plastica del miglior Novecento italiano.
Tra le oasi de La petite Afrique, intervallate da palme e laghetti artificiali, trovano collocazione le opere di Roberto Barni, Sandro Chia, Kim Hamisky, Sophia Vari, Beverly Pepper, Claudes Lalanne, Louise Borugeois, Marisol, Arturo Martini con "La dormiente" del 1933, Andy Goldsworthy, Linda Venglis, Niki de Saint Phalle e Catherine Lee. Immerse invece tra la lussureggiante vegetazione del giardino dello Sporting Club, le sculture di Richard Nonas, Jonathan Borofsky, Momen, Tony Smith, Roger Phillips, Gianfranco Pardi, Nancy Graves e Karel Appel.
Nella grande aiuola centrale di Place du Casino, il posto d'onore spetta quest'anno a "Monument" (1970) e "Oiseau) (1981) di Joan Miro e a "Spunk of the Monk", eccezionale stabiles di Alexander Calder che pur nel saldo ancoraggio al terreno conserva intatte tutte le caratteristiche di aerea leggerezza dei suoi più famosi "mobiles". Nell'atrio del Casinò sono inoltre collocate opere di Arman, Botero, Cesar, John Chamberlain, Dennis Oppenheim, Tony Smith, William Tucker.
Intorno al Café de Paris sono situate le sculture di Momen, Sacha Sosno, Robert Graham, Francois Lalanne e "Change meeting" (1988) di George Segal i cui personaggi, sebbene formati in bronzo anziché in gesso, sono permeati del solito senso di angosciante alienazione. Sulla passeggiata di Avenue de Montecarlo, infine, ci sono il "Big bird" di Botero e "Poisson paisage" di Francois-Xavier Lalanne, un'opera in bronzo e pietra concettualmente "intermediale": tra la testa e la coda di un pesce, un'apertura riquadrata si offre come monitor di una realtà che simula la funzione di un video-tape restituendo l'immagine immutevole, eppure in perenne movimento, del mare e dei lussuosi yacht da crociera che lo solcano. Un finto video, di magrittiana ironia, che rappresenta, forse, il "senso" della suggestione di questo luogo fondato sulla giustapposizione tra realtà e artificio.
In sostanza questa mastodontica esposizione, voluta da un principe colto e da una gallerista attenta, ha il pregio di riportare la scultura alla sua antica valenza di committenza pubblica e la ripropone mutandone le caratteristiche da "sacrali", cui l'ha abituata la collocazione quasi esclusivamente museale degli ultimi due secoli, a "praticabile", che si possa cioè usare come un comune oggetto d'uso quotidiano, anche se di design raffinato. Non solo, indica altresì una possibile ipotesi di assetto urbano che abbia come fine una solida educazione visiva e che pratichi le strade del coraggio, dell'intelligenza e dell'investimento: se il pubblico non va all'arte è l'arte che va al pubblico. Una filosofia che assicura cresita culturale e ritorno economico.
Qui a Montecarlo, uomini di tutte le latitudini considerano oramai come indispensabile arredo urbano queste sculture che una sensibile amministrazione ha predisposto nelle strade per il godimento dei loro occhi e del loro spirito. E quando sui boulevarss l'incanto di mille lampioni sostituisce la luce del sole, esse sono là, con i loro riflessi dorati ad assumere la connotazione di numi tutelari: totemiche e mitiche testimonianze dell'immortalità di un luogo che ha il sapore del tempo, il colore dell'infinito e il suono de "le tam-tam du paradis".
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 18 settembre 1991.
Durante la notte tra il 3 e il 4 novembre del 1966, 4000 metri cubi d'acqua confluirono minacciosamente nell'Arno tra le dighe di La Penna e Levante per poi abbattersi sui deboli argini da 2500 m.c. della città di Firenze che fu ridotta ad una «fogna a cielo aperto» da una mistura d'acqua, fango e detriti di ogni genere. Quello del '66 fu però solo uno dei 42 straripamenti, dal 1200 ad oggi, del "torrentaccio rovinosissimo".
I motivi per cui questo fiume, prodigo di energia e fertilità sin dai primi insediamenti romani del 59 a.C., si è ribellato all'uomo sono da ricercare nella violenza che l'uomo stesso gli ha usato man mano che l'inurbamento forzato ne ha modificato l'identità incidendo irreversibilmente sulle caratteristiche geomorfologiche di una vasta conca orografica della regione. E l'evoluzione storica di queste trasformazioni è stata raccontata per sequenze dalla mostra "Immagini del Valdarno fiorentino" allestita presso il Museo di Storia della fotografia dei Fratelli Alinari a Firenze fino al 6 gennaio.
La rassegna, ripercorribile nell'esauriente catalogo, si sviluppa secondo una metodica da flashback lungo il percorso del fiume Arno che, come un bulino sul legno di filo, incide la sua impronta sul territorio in maniera estremamente caratterizzante.
Il primo nucleo raggruppa le suggestive immagini del fiume attraverso la sua coniugazione con i ponti che l'imbrigliano man mano che discende a valle; fotografie tratte da vecchie lastre e da microfiches provenienti non solo dagli archivi Alinari ma anche dalle collezioni Vestri e Touring Club.
Il secondo e più corposo nucleo si configura come una sorta di réportage, cadenzato nel tempo, sul processo di metamorfosi dei più antichi insediamenti del Valdarno. Figline, per esempio, nel metafisico impianto delle sue piazze e delle sue torri i cui orologi scandiscono il tempo dell'evoluzione industriale focalizzando il desolante aspetto della sottoccupazione e dello sfruttamento della manodopera infantile.
Oppure Incisa, Sammezzano, Regello, cristallizzate nelle stampe del primo Novecento in un sistema di vita che presuppone il raggiungimento di un felice equilibrio tra tradizione, ambiente e società. Non a caso l'obiettivo spazia dalle spoglie pareti domestiche di semplici case rurali all'ovattato percorso della lussuosa Villa Panciatichi, interamente decorata in puro stile moresco.
Le fotografie di Vallombrosa, Rignano e Rosano si qualificano come autentici strumenti di lettura critica della realtà fenomenica degli antichi borghi il cui sviluppo socio-economico si manifesta secondo parametri visivi di varia connotazione: dai primi tentativi di pianificazione del lavoro praticati nelle Abbazie, via via fino alle cooperative di consumo.
Il terzo nucleo riguarda la straordinaria concentrazione di capolavori d'arte antica presenti nella valle arnina, a testimonianza dell'importanza culturale della direttrice che collegava l'alta Etruria a Roma. Il progressivo sorgere di chiese parrocchiali e gli ins ediamenti delle ricche casate che fortificavano lungo la vallata, avevano attirato in zona, sin dal '400, maestranze di alta specializzazione e artisti di rinomata fama come Masaccio, Antonio Rossellino, Rosso Fiorentino ed altri.
In conclusione, una mostra (e ora un catalogo) capace di offrire alla percezione dell'osservatore la documentazione di un viaggio nel tempo, lungo un percorso per immagini che, pur seguendo l'itinerario di un fiume, ripercorre le tracce di un immaginario vòlto alla riscoperta incantata delle radici più profonde della nostra identità.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 8 gennaio 1992.
E così, Bologna ha consumato anche la sedicesima edizione di Artefiera che, nella speranza degli operatori, avrebbe dovuto mostrare i segni di una ripresa che invece non c'è stata. Soltanto un anno fa la fiera dell'Arte, e degli artisti, si era inaugurata in un'atmosfera resa angosciante dai lividi bagliori degli "scud" e dei traccianti che si rincorrevano per i cieli del Golfo: un evento che assestò il primo, violento colpo ad un mercato che, appena reduce da una profonda crisi, aveva preso a viaggiare, sulla scia di una incontrollata euforia, a ritmi divenuti insostenibili.
Se quindi appare credibile che questo stato di cose non potrà che giovare ad un settore che offre dei parametri di riferimento estremamente vaghi, bisognerà vedere se a lungo termine il cosiddetto «assestamento» dei prezzi sarà in grado di proporsi quale soluzione anticrisi o se altrimenti non ingenererà maggiore confusione nell'ambito del medio e grande collezionismo.
Certo, l'appuntamento del '93 dovrebbe trovarci preparati al confronto con paesi la cui organizzazione, nello specifico, non lascia il minimo spazio alla casualità. Del resto, se l'intero «sistema» dell'arte non muterà rotta, Artefiera di Bologna si troverà a rivestire un interesse esclusivamente «merceologico»; né più né meno che una qualsiasi fiera della casa o del vino novello poichè, dal punto di vista squisitamente propositivo, essa non ha più nulla da dire. E la proposta agli operatori di adottare scelte monografiche costringe le gallerie ad impegnare più metri quadrati con un aggravio di spese sempre maggiori, il che, in altri termini, significa (ma soltanto per quelle più solide economicamente) puntare esclusivamente, o quasi, su artisti di sicuro richiamo. Ci pare questo il limite della contraddizione: chiedere, in una fiera, mostre «a tema» ad un settore che non può più permettersi di fare opinione perchè pressato dall'esigenza di fare mercato.
Tuttavia Artefiera conserva intatti molteplici meriti; intanto quello di aver attivato uno spazio dedicato alla grafica, ai multipli e all'editoria, che deve la sua costante crescita non solo all'adozione di un'oculata politica di contenimento dei prezzi, ma anche al raggiungimento di un livello qualitativo tecnicamente elevato del prodotto messo in circolazione.
Risulta inoltre di grande interesse il Salone della Ceramica d'Arte, che, giunto all'8^ edizione, reclama una collocazione riqualificante per questa ricerca artistica proprio nel momento in cui sia la scultura, che la pittura stessa, nel loro affannoso ricorso a materiali alternativi e nella loro costante pratica di «sconfinamento» operati. vo, hanno sostanzialmente annullato il già precario margine tra arte e artigianato artistico.
Come ormai di consuetudine, una serie di iniziative altamente qualificate hanno alzato sensibilmente il tono della mostra mercato. È il caso del primo convegno internazionale mai tenuto in Italia sulle «Fondazioni d'Arte Contemporanea» che ha preso in esame il ruolo fortemente incisivo, quando non determinante e/o sostitutivo, di questi veri e propri «laboratori di esperienze» nell'ambito della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio artistico.
I responsabili scientifici ed organizzativi di fondazioni inglesi, tedesche, spagnole, portoghesi, francesi, statunitensi, belghe e italiane, hanno avuto modo d'individuare le strategie gestionali, gli ordinamenti statutari e le prospettive comuni possibili per una collaborazione più aderente e maggiormente efficace tra pubblico e privato.
E infine il caso di sottolineare che gli «Amici dell'Arte Contemporanea» sono tornati a farsi vivi, con l'edizione di quest'anno, per scegliere, tramite una commissione, le opere da acquistare (lodevolissima iniziativa) a nome delle aziende aderenti al club e da affidare in deposito alla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Bologna; ma è questa un'operazione di alchimia matematica (lèggi proprietà distributiva) che presenta contorni troppo sfumati per poter essere apprezzata fino in fondo.
Dal 24 al 27 gennaio quindi Bologna ha vissuto d'arte, e tutte le gallerie, sia pubbliche che private, hanno messo In vetrina i prodotti più belli, sfuggendo alla legge dei «saldi» che invece imperversa in questo periodo negli altri settori merceologici. La stessa Galleria d'Arte Moderna. prorogando fino all'8 marzo '92 la mostra «Nuova Officina Bolognese» ed inaugurando il 25 gennaio gli Otto percorsi esemplari de "Il pensiero tangibile" ha inteso proporsi quale referente di un'arte d'élite: multimediale; oggettuale; d'ambiente; body; tattile e persino olfattoria (un Pistoletto del '67); espressioni e tematiche decisamente assenti dai padiglioni dell'Ente Fiera. L'unico dubbio che ci rimane è se consideasti la prima come "arte di regime" e la seconda come "arte ufficiale" o viceversa; dalla futura storia del prossimo, futuro secolo, attendiamo una risposta.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 18 febbraio 1992.
La moderna museologia fonda oggi molte delle sue fortune su una salutare inversione di tendenza; la pratica museale, fino a qualche tempo fa statica, muffita, superata, sull'esempio dell'iniziativa privata, scopre il management, la pianificazione, il marketing. Ma fa anche di più, prende in prestito dal mondo della scuola il termine «didattica» del quale l'istituzione scolastica ha disconosciuto la valenza pedagogica più intima, votata com'è oramai ad una rigida e ripetitiva trasmissione dei saperi.
Sono infatti le «sezioni didattiche» le carte vincenti di musei e grandi mostre poichè riescono a fornire al referente un servizio complementare calibrato ove i termini della domanda e dell'offerta culturale risultano chiari e definiti, ciò che ancora non avviene in maniera organica nella scuola, impantanata ancora oggi nell'ambigua interpretazione dell'art. 1 del Dpr 417 del '74 che garantisce al docente la «libertà d'insegnamento».
E nell'Istruzione artistica le cose si complicano in quanto addirittura è l'art. 33 della Costituzione Italiana a sancire che l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. Se poi a questo si aggiunge la resistenza della concezione (di autentico stampo medievale) secondo cui l'arte sarebbe un'attività manuale basata su un sapere specializzato che, implicando applicazione ed esperienza, resta eminentemente pratica (arte come "techne"), si comprende perchè nelle nostre Accademie continuano ad esistere due diversi tipi di didattica dell'arte: l'una che tende ad «imbrigliare» la fantasia dell'allievo e che professa la trasmissione autoritaria del sapere: l'altra che mira a liberare la creatività dai condizionamenti e che fonda la sua linea pedagogica sul rapporto interattivo tra maestro e discepolo.
Sembra quindi estremamente puntuale l'iniziativa recentemente conclusa alla Galleria dei Banchi Nuovi di Roma intitolata «Costruire la scultura». Promossa dalla Provincia di Frosinone tramite l'Accademia di Belle Arti della stessa città, ha messo in mostra un autentico itinerario didattico di un docente-artista, Nicola Carrino, da sempre impegnato nel difficile rapporto tra teoria e prassi, percorso verificato attraverso le opere di 15 allievi del suo corso elaborate tra gli anni '86 e '92: autentica oggettivazione della «pratica metodologica» di questo bravissimo scultore il cui lavoro, come scrive Vincenzo Perna, "è emblematico di un atteggiamento analitico - concettuale che va a scoprire e a mettere in discussione le radici grammaticali e sintattiche dell'attività plastica e di un metodo rigoroso sempre presidiato dal dubbio galileiano, della esigenza di ribaltare lo schema che soddisfa".
I progetti e le sculture in mostra si aggregano da una parte intorno al polo della struttura e della variabilità, dall'altra intorno al polo dell'organicità e dello sviluppo: poli dialetticamente tendenti alla costruzione consapevole di un reale possibile.
Nella logica di tale ricerca, le strutture primarie di Amato, Apurinetti, Bovi, Liuzzo e Sbardella tendono ad azzerare lo scarto tra immagine e immaginazione impegnandosi a costruire e decostruire una sorta di "environments" che diventano «simboli» dello spazio piuttosto che «forme» nello spazio. Cerroni, Mazzone, Nicodemi, Pericone e Pontone invece puntano sulla "variabilità" dell'opera, affidandone la lettura dei codici visivi alla manipolazione progettuale di forme modulari aperte alla dinamica dell'imprevedibile instabilità delle soluzioni. Assegnano infine alla capacità comunicativa del gesto artistico la possibilità di referenza con l'interiocutore i giovani De Feo, Dell'Orco, Grossi, Pallisco e Tarda i quali, ora mediante il linguaggio del «segno», ora attraverso il «recupero» oggettuale, ora secondo pattern naturali o artificiali, postulano un effetto di penetrazione semantica nella genesi dell'opera.
In conclusione, un'interessante riflessione che pone l'accento su una ipotesi di metodo nella didattica dell'arte, con l'augurio di poter formare nelle nostra Accademie non già «artisti» (come erroneamente è invalso l'uso di ritenere) bensì tecnici dell'immagine, ricchi di un sapere articolato e diversificato, consapevoli della loro collocazione di privilegio in una società basata sull'immagine e tradizionalmente legata all'arte, in tutte le sue forme. Un augurio che tuttavia non sembra trovare riscontro nè nell'intenzione dei vertici dell'Ispettorato, nè nella realtà dei fatti. Un esempio? I recenti concorsi a cattedre nelle Accademie di Belle Arti ove la volontà di rinnovamento è rimasta sulla carta (leggi bando) mentre la consolidata prassi delle clientele ha conservato il sopravvento (leggi risultati).
Un augurio ai futuri tecnici della comunicazione visiva ed un sentito ringraziamento a Nicola Carrino, bravo anche a trasformare in arte la didattica.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 13 agosto 1992.
Spetta indubbiamente a Ca' Pesaro la palma per la proposta più convincente dello spendido, trascorso settembre artistico algunare. Merita cioè ampio consenso la sapiente mossa dell'aver rinnovato, a ventiquattro anni di distanza, l'appuntamento tra le gondole con un artista che possiede la rara capacità di ricomporre ed azzerare l'apparente incompatibilità tra ricerca tecnica e ricerca estetica mediante l'adozione di una "pratica alchemica" tanto preziosa quanto fascinosa.
Si tratta di Horst Janssen, tedesco di Amburgo, che allora, nel tempio dello "strumento della borghesia" (come venne definita la Biennale del '68) vinceva il primo premio proprio mentre, tra environmente ed opticaol dilaganti, si affermava il più sfrenato cinetismo, e che oggi, smaltiti i postumi del postmodernismo imperante, impone le sue magie in pieno clima di révival oggettuale. Allora come oggi manipolando, tra fumi di salnitro e fuliggine da petrolio, scaglie di colofonia, bianco di Spagna, bitume giudaico e sego con cera: poco "nobili" materiali, patrimonio quasi esclusivo degli incisori; misteriosa progenie di artisti che lavorano sull'effimero poiché hanno imparato che una cosa importantissima può svanire nel nulla e che l'entusiasmo e l'impazienza si pagano a caro prezzo.
L'ampia rassegna che l'Associazione Italo-tedesca di Venezia ha allestito in collaborazione con l'Istituto per le ralazioni culturali con l'estero di Stoccarda, ha raccolto un corpus di 160 acqueforti eseguite da Janssen tra il '58 ed il '75, evidenziando quindi per un verso la maturazione squisitamente operativa della sua già raffinata tecnica espressiva, e qui è necessario sottolineare il ruolo decisivo del sodalizio artistico con il calcografo Hortmut Frielinghaus, mago del torchi astella, rendendo per un altro verso tangibile la poetica della trasformazione del "pensiero figurativo" di questo artista che attraverso la lezione di Ensor, Klinger, Dubuffet e Schiele persegue un personale iter in cui la "logica del visibile viene messa al serviio dell'invisibile".
Per una più scorrevole comprensione dei fogli proposti in mostra, è forse il caso di analizzarne il percorso progettuale attraverso tre vaste tematiche di riferimento riconducibili alla "Passeggiata di Hokusai", agli "Autoritratti" ed ai "Paesaggi".
Apparso nel 1972 come "Trattato sull'acquaforte, comprendente il capitolo "Sul disegnare secondo al natura" e quello sulla "Creazione di un'acquaforte", il tema della passeggiata rappresenta per il Janssen il pretesto per uno stimolante confronto con le forme d'espressione dell'opera di Hokusai, maestro xilografo giapponese che visse tra il 1760 ed il 1849 e fu strenuo assertore del cliché del "genio originale".
Nell'opera di Janssen uno spazio significativo è rappresentato dagli innumerevoli autoritratti, territorio d'indagine approfondita sull'immagine dell'essere umano, al di laà del brutto e del bello, ovvero faccia a faccia con il peso del bene e del male; così come appare nella serie per la "Morte di Hanno", tratta da "I Budden brook" di Thomas Mann, ove il percorso del tifo mortale del piccolo Hanno si concretizza attraverso la "disgregazione fisiognomica" dell'autoritratto dell'artista la cui maschera, dilaniata da autentiche sciabolate di bulino, sembra disciogliersi come cera e tramutarsi in magici paesaggi sotto l'azione del percloruro di ferro.
Il paesaggio, sì, terzo e significativo filone della tematica di Janssen. L'apporto dell'ampio vocabolario grafico (controtaglio, tratteggio spontaneo, incisone a puntasecca) ed i sapienti accorgimenti tecnici (io ricorso alla lastra di zinco al posto del rame) concorrono alla messa in opera di "invenzioni formali" che di paesistico hanno soltanto i riferimenti sovrastrutturali di partenza. Il forte impianto dei profondi segni di puro sapore neofigurativo postula la rappresentazione del macrocosmo attraverso l'attenzione al miscoscopico e viceversa che per Janssen altro non significa che la vicenda della parabola umana "nel cui presente -come dice lo stesso artista- non c'è nessun passato e nel quale contemporaneamente sembra fluire insieme ogni futuro".
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 5 ottobre 1992.
Smaltita l'eccitazione della vigilia e sopito il clamore che sempre accompagna ogni avvio dell'immarcescibile Biennale veneziana, appare necessaria non tanto o non solo una chiave di lettura per la comprensione di opere che presentano una matrice linguistica così diversa tra loro , bensì un'analisi condotta in profondità intorno a quelle che possono essere considerate le tretematiche portanti della proposta estremamente segmentata di questa XLV edizione: il sistema dell'arte nel contesto politico-culturale; l'idea della coesistenza delle diverse culture; il progetto della transnazionalità nella struttura a mosaico delle proposte. Una segmentazione che cerca di qualificare le Arti Visive all'interno di un più vasto progetto culturale di base.
Una valutazione però possibilmente fredda e razionale, al di fuori della reticenza e oltre la mielosità di certe cronache delle molte riviste specializzate che per la prima volta applaudono alla "operazione zuccherina" che il prode Achille ha saputo inventare.
Chi si aspettava un naturale accentramento del "curator" dell'evento artistico dell'anno è rimasto spiazzato perché il Bonito Oliva, da vecchia volpe qual è e da buon inventore di mostre e di artisti, ha capito che l'unico modo per evitare le critiche feroci toccate quasi come un destino ineluttabile a tutti i suoi predecessori era quello di dispensare "zollette" a tutta, o quasi, la new wave della critica che milita nel settore delle arti visive. Ecco spiegato il motivo per cui autorevoli riviste che hanno sempre sparato a pallettoni su curatori e commissari delle passate edizioni, oggi arrivano a definire "nuovo rinascimento" un'operazione da manuale che non propone nulla di nuovo in quanto istituzionalizza nel pubblico ciò che già avviene nel privato, dove la transnazionalità si pratica da lungo tempo, forse con caratteri meno nobili della coesistenza dei popoli e dei linguaggi ad essi congeniali, ma per semplici esigenze di mercato.
Un'idea, questa, che diventa programmatica nel progetto di Bonito Oliva e forse maggiormente valida "in progress", nel senso cioè di porsi come idea-guida per una Biennale diluita nel tempo con mostre senza soluzione di continuità, ma che mostra il suo limite allorché decreta definitivamente la morte dell'artista in quanto nega la centralità dell'arte, come riappropriazione del mondo, e afferma la centralità della critica come riappropriazione dell'arte. Ecco momentaneamente chiuso l'ennesimo round tra teoria e prassi: nella vetrina degli anni Novanta l'insipienza dell'artista al servizio del critico "vate".
E' lo stesso Achille Bonito Oliva che per la serie "l'arte delle mostre d'arte" teorizza la "responsabilità individuale" che permette di praticare il (suo) narcisismo e protagonismo propositivo: "Nella cultura -aggiunge- si può essere infantili ma non immaturi". Una dichiarazione programmatica che sposta decisamente il discorso sulla progettualità culturale di fondo che resta alla base delle motivazioni e delle scelte operative che riguardano in questo caso la Biennale ma che riflettono la politica dell'intero "sistema" dellarte, ovvero l'idea di un'arte che, secondo lo stesso Bonito Oliva, "vive nella società contemporanea all'interno di una catena produttiva di soggetti, ognuno portatore di diverse professionalità che alla fine determina quel concetto di plus-valore che si aggiunge all'opera d'arte".
E infatti dal '74 che, in riva alla laguna, riposto in soffitta il populismo di matrice sessantottina, si discute sulla possibilità di conciliare un'attività di punta, e quindi di qualità, con le esigenze di una partecipazione sempre più massificata e quindi più aperta al grande pubblico.
Il rebus Bonito Oliva lo risolve con grande senso manageriale; rispolvera l'impostazione programmatica della Biennale (carattere interdisciplinare, massima progettualità, sperimentalismo, rapporto con il territorio) rinfrescandola con un'idea nuova: una ricognizione a 360 gradi nella quale tutto e il contrario di tutto è catechizzato, classificato, titolato da uno stuolo infinito di critici, militanti e non, che invitano a loro volta gli artisti. Un odioso tourbillon che fotografa l'arte del "sistema" nei cui ingranaggi l'artista è oggi stritolato; la sua presenza altro non è che la credenziale delle teorizzazioni, spesso farneticanti, di personaggi che riescono a trovare credito presso Enti e gallerie private.
Ovviamente c'è del buono in questa Biennale che chiuderà i battenti il 10 ottobre, dove il meglio sembra essere tra gli artisti della sezione "Fratelli" (Tano Festa e Francesco Lo Savio) le cui diverse esperienze si confrontano con uno spaccato di storia estremamente stimolante per l'arte italiana; oppure nell'omaggio a John Cage, capace di un'attenzione totale verso l'esperienza del quotidiano nell'arte; nell'artista di "Figurabile", Francis Bacon, che nelle sue tele propone in termini kafkiani il mito dell'anteriore e della vulnerabilità del genere umano; o ancora tra gli artisti di "Slittamenti" (Alviani, Lupertz, Pascali, Schifano, Greenaway), che propongono il superamento del vecchio separatismo linguistico. Ma questa è un'altra storia della quale forse val la pena di riparlarne in maniera più approfondita in altra occasione.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza Pagina dell'Arte, 26 luglio 1993.
Si fa presto a dire "vacanze culturali". Sembrerebbe anche facile quando puoi contare sull'accoppiata d'eccezione Venezia-Biennale se a complicare le cose non ci si mettessero in piena estate la colonnina del mercurio e Achille Bonito Oliva. La prima, perfidamente incollata sui 36° all'ombra, il secondo, impietoso demiurgo della "transnazionalità" dell'arte nonché curatore della XLV edizione della Biennale Arti Visive. A veder le facce inespressivamente stralunate di tedeschi e giapponesi, veri stakanovisti della vacanza "tutto compreso", ma anche dei molti turisti indigeni in uscita dai Giardini di Castello o dalle Corderie dell'Arsenale oppure da Palazzo Fortuny, è fatica capire se siano rimaste vittime di un colpo di calore o invece colpite da shock anafilattico provocato dalla "12^ Meditazione" di Susana Solano o dalla scacchiera di organi sessuali di Oliviero Toscani oppure da un "Water Book" di Peter Greenaway.
Meglio forse approfittare di questo primo scorcio autunnale (la Biennale chiuderà il 10 ottobre) e delle sue più concilianti frescure. Comunque, a volerla vedere (ma tutta in una volta non ci riesci) questa Biennale, non è solo questione di rigetto da overdose di immagini quanto di spaesamento totale, di perdita d'identità, di confusione nei confronti di quel "nomadismo" culturale che, ipotizzato dal suo inventore quale presupposto per una coesistenza dei linguaggi, conduce invece una Babele indecifrabile all'interno della quale e verso la quale regna il caos, tanto più assoluto quanto meno s'intravede al suo interno un progetto culturale comune che non sia il servilismo più becero al mercato dell'arte contemporanea, complice l'intero sistema: artista, critico, mercante e Istituzione, che ruota intorno ad esso.
E' veramente singolare questa Biennale di Venezia che, concepita prima di tangentopoli da uomini vecchi e con riferimenti culturali degli ultimi anni '80, si effettua in pieno clima "mani pulite", secondo volontà (irrealizzate) di rinnvamento e con artisti che operano secondo nuovi stilemi. Se ifatti gli anni '80, sullo sfondo di uno scenario ormai prossimo alla recessione, avevano celebrato il ritorno all'immagine, il ricorso alla "citazione" e ai valori della pittura, gli anni '90, sulla scorta di esigenze riconversive dell'intero sitema produttivo e politico-culturale di una società aperta (ma forse non disponibile) ad esigenze multirazziali,nascono nel segno del "raffreddamento", prospettando ipotesi di sconfinamento verso aree linguistiche scarsamente praticate in precedenza.
L'intreccio di popoli e bisogni diversi ha sedimentato l'eclettismo culturale che configura l'"idea del viaggio", non come sinonimo di fuga ma come metafora di conoscenza, di incontro con l'"altro"; un itinerario che secondo Bonito Oliva volge verso un quinto punto cardinale sconfinante oltre i quattro tradizionali, raggruppati secondo le direttrici Sud-Nord ed Est-Ovest, capace di rappresentare la "coesistenza pacifica dell'arte" nelle sue molteplici differenze espressive. Riappare in qualche modo il richiamo al Gesamtkunstwerk wagneriano che rievoca, in assenza della perduta centralità dell'arte, l'ideale utopico dell'opera d'arte totale soggetta al giorno d'oggi allo slittamento e alla contaminazione di linguaggi diversi.
Indubbiamente l'eccessiva e contemporanea parcellizzazione delle tecniche pittoriche che caratterizza questa edizione della Biennale, e che ha contraddistinto la produzione artistica a cavallo tra gli anni '80 e '90, impone da un lato un'attenta analisi del rapporto arte-società e dall'altro la focalizzazione sulla stretta connessione tra segno e referente che in termini di linguaggio resta uno degli aspetti più emblematici di un'arte che desidera sperimentare se stessa quando, giustapposta agli altri linguaggi, entra in rapporto di relazione con il complesso sistema di comunicazione senza peraltro perdere la propria autonomia paradigmatica.
L'arte non è mai stata di facile comprensione; oltre alle "qualità" apparenti ha sempre posseduto una "sostanza" latente cui l'artista ha riservato non solo compiti descrittivi, ma spesso anche ideologici, di propaganda o di denuncia. Appare però evidente che la trasmissione del "messaggio" fra emittente e ricevente risulta tanto più intelligibile quanto più il codice di comunicazione (sistema dei segni) è comune sia all'uno che all'altro.
Nella cultura artistica di matrice neo-moderna, il tentativo di ridurre al minimo lo scarto tra vero e verosimile ha indotto l'artista a perdere il gusto per la raffigurazione tradizionale e a ricercare un chiaro effetto di evocazione spettacolare mediante il largo uso dell'"ggetto" il cui spostamento semantico da un lato e la sua qualità coinemica dall'altro conducono alla chiusura di quel processo circolare, antecedente e susseguente al percorso comunicativo che Elisa Zeuli distingue in "analogico" e "digitale": il continuum tra interno ed esterno dell'opera e la diversificazione dei suoi significati.
Attualmente, in una società succube della "teoria dell'informazione" ove anche l'industria della cultura manipola in maniera subliminale gli strumenti della comunicazione dei media, la ricerca artistica trova un naturale sbocco verso una rinnovata concettualità che adopera tecniche tendenti a uniformarsi sempre più ai procedimenti spersonalizzanti della produzione di massa. Il rischio però di un trivellamento indiscriminato nell'area del gusto popolare è quello di sfociare nel kitsch, area di grossa contraddizione nella quale si confondono i due poli legati all'estetica della comunicazione: ciò che è bello e iò che piace. Ma di questo parleremo in un'altra occasione.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 13 settembre 1993.
A chiusura della Il Triennale Nazioinale "Vicenza alle donne dell'arte" recentemente allestita in basilica Palladiana a cura degli Assessorati alla Cultura del Comune e della Provincia di Vicenza, sembra opportuno esprimere alcune considerazioni sui due grossi filoni programmatici insiti nella mostra e che si presentano strettamente correlati tra loro: l'uno che riguarda la condizione femminile nella società moderna, e che quindi propone un momento riflessivo sullo stretto rapporto donna-arte-società; l'altro che attiene all'apporto delle problematiche femminile nel comparto delle Arti Visive in un momento storico di particolare interesse che pone il confronto tra un'arte tipicamente "fin-de-siècle", caratterizzata da una rinnovata mescolanza di stili estremamente diversificati tra loro e che conduce a quella contaminazione dei linguaggi conseguente al nomadismo culturale che Bonito Oliva ha ampiamente illustrato nella XLV edizione della Biennale veneziana.
Il convegno sul tema "Donne, tra il quotidiano e il creativo" tenuto nei Chiostri di S. Corona come approfondimento della mostra, ha proposto un'indagine storico-antropologica su di un immaginario di donne derivato da un ambito culturale che non sia frutto di deformazione ideoIogica, ma si ponga quale processo di civilizzazione e allo stesso tempo di conquista più ampiamente intesa.
Gl'interventi di Maria Trentin, del Centro Coordinamento Donne diVicenza, e di Simonetta Gatti Zara, presidente della Commissione provinciale per le pari opportunità, hanno delineato un panorama sconfortante che oggi soprattutto, in clima di piena recessione economica e di tagli feroci all'occupazione, vede la donna prima vittima di un sistema di sopravvivenza regolato su gerarchie discriminanti e improponibili in quanto imposte in un mercato del lavoro estremamente duttile e che avrebbe bisogno di strategie di riconversione più attente e meno indiscriminate. Un sistema che per un verso postula (e qui deve intendersi come vincolo paritario) l'aggiornamento continuo come condizione indispensabile per il superamento sul gap occupazionale, e per l'altro esige una pianificazione organizzativa del lavoro che tenga conto della realtà sociale circa le problematiche del rapporto uomo-donna.
Nel momento in cui, però, i termini del discorso si spostano essenzialmente sull'analisi sociologica dell'arte, può apparire spontaneo chiedersi se esista una fisiognomica specifica della donna-artista che faccia differire biologicamente da quella maschile la cosiddetta "creatività femminile". E ancora, se esistano tipologie artistiche particolari che possano essere considerate caratteristiche di un'arte al femminile.
Se a tal riguardo è consolidata la teoria secondo cui l'artista donna, originariamente dedita all'imitazione delle opere degli artisti maschi, sia stata impossibilitata alla trattazione dei grandi temi per difficoltà legate alla copia dal vero e per la mancana di uno studio ove poter organizzare il proprio lavoro; se è vero che la donna, fino agli inizi del secolo, si sia rifugiata per motivi di sopravvivenza in un ambito per così dire "integrativo", praticando cioè territori ancora incontaminati dall'invadenza maschile come l'arazzo, il dipinto su tessuto e la moda (fino a che essi sono stati al di fuori del circuito degli interessi finanziari); è ancor più giusto sottolineare che le conquiste sociali, faticosamente raggiunte dalle donne, hanno seguito di pari passo la ricerca artistica dell'arte moderna. Non è un caso che le formulazioni più convincenti delle rivendicazioni femministe sorgevano contemroraneamente alle rivoluzionarie teorie sulla percezione e sulla pratica impressionista.
L'intendimento di questa II Triennale Nazionale è stato quello di proporre un momento di riflessione su un'arte che del vecchio still-life non ha più nulla, oppure, se proprio si vuole, gioca le sue carte sfruttando lo "specifico" femminile, se è vero che una grossa fetta dell'arte contemporanea fonda la sua capacità di penetrazione comunicativa sulla carica di seduzione che riesce ad esprimere mediante la messa in opera di incanti, trucchi, astuzie: autentiche fiction che da sempre appartengono al bagaglio di riserva delle donne e che l'espressione artistica più recente ha riproposto con la teatralizzazione dell'opera.
Con essa le caratteristiche iconiche del linguaggio artistico femminile, partito da posizioni di ripiegamento e dopo aver superato la pratica delle arti minori e lo sfruttamento del corpo (cui le donne più degli uomini hanno affidato un intendimento linguistico-comunicativo con la "performance" e la "body-art"), hanno modificato il vecchio sistema "soft" di rappresentazione nell'orientamento "hard" tipico del riflusso neo-espressionista e postmoderno degli anni Ottanta.
Puntando l'attenzione sulla "temperatura" dell'arte, in un momento storico atipico che vede nello stesso momento la fine di un secolo e quella di un millennio, la mostra "Fin-de-siècle" insinua nelle trame dell'arte l'obbligo di un ripensamento sulla già citata creatività femminile, certamente più autentica, meno costruita a tavolino, poco incline alla moda tout-court perchè ancora in attesa di un inserimento efficace nel circuito del grand-tour mercantile.
Il "teatro dell'attesa" di Lucia Pescador; il "magico rituale grafico" di Annabella Dugo; la "stilizzazione formale" di Mirta Caccaro; le "suggestioni terrene" di Mirella Brugnerotto; le "frammentazioni memoriali" di Paulina Humeres; il "recupero post-minimalista" di Marina Mentoni; "l'alchimia tardo-gotica" di Annamaria Gelmi; il "sollevar discreto" di Anna Moro-Lin; le "percezioni ambigue" di Marta Pilone; gli "impasti pigmentosi" di Marcella Lenarduzzi; la "decostruzione formale" di Roberta Pugno; le "presenze antropomorfiche" di Delfina Camurati; il "gusto drammatico" di Adele Monaco; la "suspence dell'attesa" di Tomaso Binga; il "graffitismo chiaroscurale" di Lucia Romanelli; la "materia negata" di Graziella da Gioz; il "codice strutturale" di Laura Stocco; la "contaminazione comunicativa" di Carmen De Visini; il "teatrino del quotidiano" di Giosetta Fioroni; le "connotazioni magmatiche" di Patrizia Guerresi, rappresentano il risultato dell'accumulazione delle esperienze condotte dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni e ci rappresentano l'esito della ricerca artistica che ha sperimentato se stessa con l'urgenza e l'ansia di registrare gli umori e le sensazioni della cronaca e di documentare le vicende e il tempo della storia.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 7 dicembre 1993.
Proprio mentre Germano Celant porta al Guggenheim di New York la sua "Italian Metamorphosis 1943-1968", spaccato pluridisciplinare sull'arte del dopoguerra e della "ricostruzione" del made in Italy artistico-artigianale dove, tra le altre, è presente un nutrito gruppo di opere di Lucio Fontana, la città di Ferrara dedica a questo grande maestro del Novecento una retrospettiva con un obiettivo però diverso dallo scandagliamento della sua poliedrica personalità artistica, quello cioè di mettere in luce il concetto di "centralità" che questo multiforme artista ha avuto dell'oera d'arte, intesa come "continuum" di esperienze sedimentate sempre ultime ma allo stesso tempo generatrici di altre possibili.
Questa mostra, ospitata a Palazzo dei Diamanti fino all'8 gennaio '95, e che prosegue la serie dei maestri del secondo Novecento inaugurata nella scorsa primavera con Ennio Morlotti, concorre, insieme alla mostra di Claudio Olivieri e all'apertura del nuovo Museo d'Arte Contemporanea istituito a Palazzo Massari, al rilancio dell'attività espositiva predisposta con grande slancio da Andrea Buzzoni, attuale direttore delle Gallerie Civiche ferraresi, dopo un periodo di crisi fisiologica coincisa con il pensionamento di Franco Farina che di tale attività era stato l'infaticabile promotore.
Per tornare alla mostra di Fontana, sarà quindi utile comprendere attraverso quale sintagma il suo curatore Flaminio Gualdoni intende dimostrarne l'originalità del taglio. "Fontana è un artista celeberrimo -egli dice- di cui tutti hanno un'opinione formata essenzialmente sugli standard tipici dell'avanguardia: l'effetto di scandalo, la stranezza di certe opere, l'eterogeneità dei materiali usati; tutti argomenti tipici della modernità che tendono a far sì che faccia notizia l'anomalia piuttosto che la qualità".
Da un lato quindi il valore intellettuale della ricerca e dall'altro una pratica sperimentale che qui è parte integrante di un processo progettuale che riesce a trasformare la materia in "idea". Idea, quella di Fontana, non più riconducibile ad un sistema di codici tradizionali di riferimento, ma che insieme all'artista e all'opera concorre a rilanciare l'affascinante quesito sulla "centralità" dell'opera che, secondo Luigi Serravalli "sfugge da sempre alla definizione anche del suo circostante".
Ecco quindi che il vasto repertorio linguistico fatto di buchi, tagli, lustrini, tubi al neon, ambienti, lampade di wood e quant'altro, si lega ad un'idea storica di arte che tende lucidamente, e secondo un concetto moderno, alla "Gesamtkunstwerk" fondata sull'integrazione delle arti e aperta ad una circolarità globale che,l come teorizzato da Achille Bonito Oliva, "rende possibili reali relazioni di spostamento, dove l'opera sarà fuori e dentro del suo confine e attraversamento di specificità nei vari linguaggi, come una concatenazione di più aspetti della realtà".
In effetti l'assunto paradigmatico sin qui esposto è nella mostra evidenziato dal percorso filologicamente scandito per cicli e per gruppi di opere atte a focalizzare i punti problematici dell'attività dell'artista, nato nel 1899 in Argentina e morto a Comabbio nel 1968.
Agli anni giovanili è dedicato il primo ciclo di opere, il cosiddetto "primitivismo" degli anni Venti nel quale, più che ai motivi estetici del Wildt, di cui Fontana fu allievo a Brera, è riscontrabile un'aderenza alle seduzioni formali di Medardo Rosso e di Arturo Martini; esperienze che nel ventennio successivo indugiano sempre più sulla suggestione dell'informe dove la materia assume connotazioni magmatiche come nella "Testa di Medusa", esposta per la prima volta dopo la Quadriennale di Roma del '39.
Il secondo ciclo riguarda le opere prodotte dopo la nascita del "Manifesto Blanco" del '46 e del "Primo manifesto spaziale" del '47, quelle della strutturazione estetica dell'immagine condotta attraverso la gestualità espressiva scandita sulla tela da una sequenza ordinata di "buchi" attraverso cui "passa l'infinito -dice Fontana, e precisa- Tutti hanno creduto che io volessi distruggere, ma io invece ho costruito".
E' la costruzione di un'entità astratta: lo spazio; la stessa che attiene al terzo ciclo di opere ma che si determina questa volta attraverso i "tagli", definiti da Gualdoni come "risolutiva dematerializzazione" oltre cui non c'è nient'altro se non uno spazio fenomenoloico che fonde l'elemento "percettivo" con la sua costituente "strutturale", luogo, secondo Garibaldo Marusi, di congiunzione tra operatore e fruitore (vedesi l'"Ambiente spaziale" realizzato per la Biennale di Venezia del '66 in collaborazione con l'architeto Scarpa) che apre al concetto di "circolarità globale" per il cui effetto se l'arte è in ognuno di noli, nessuno di noi è artista in quanto l'arte vive esclusivamente nell'opera.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte, 16 novembre 1994.
Memorabile, la Biennale del Centenario. Eclatante per le sue svolte, per le sue restaurazioni, per le sue contraddizioni. Mentre la mostra che sembrava logico aspettarsi qui a Venezia, "Le Centenaire de la Biennale de Venice", s'inaugurava al Centre Georges Pompidou di Parigi, un parigino, direttore del Museo Picasso, sbarcava in laguna per allestire la Biennale delle Biennali. E se Véronique Goudinoux al Beabourg ripercorre un secolo di vita dell'Esposizione Internazionale d'Arte seguendo il flusso della sua espansione ("geografica" se relativa al numero dei padiglioni delle nazioni aderenti; "spaziale" per l'occupazione in progress dei contenitori veneziani per le mostre; "disciplinare" se attiene all'integrazione dei diversi settori diattività) Jean Clair, curatore per le Arti Visive della Biennale, conduce un'operazione di grande spessore culturale.
Non già alla rappresentazione dell'arte, come era nelle aspettative del Direttivo; neppure all'arte della rappresentazione cui ci aveva abituati due anni prima Achille Bonito Oliva, bensì egli mira all'essenza stessa dell'arte: la scoperta di sé attraverso il confronto con gli altri. Un canalae di lettura privilegiato attraverso cui si manifestano le capacità di suscitare le emozioni del "Self", come lo chiamano gli scienziati, liberate dalla psicologia del profondo e legittimate quindi non soltanto da colui che le ha prodotte ma anche, e soprattutto, da chi con tali emozioni viene a contatto.
"Identità e alterità. Una breve storia del corpo umano nell'ultimo secolo" è il leit-motiv che accompagna questo progetto, affascinante nella sua coerenza e sugestivo nella sua chiarezza, che opera una riflessione critica sulla giustapposizione tra "l'identità" che, come tiene a sottolineare lo stesso Clair, rinvia alla persona, ma anche al gruppo sociale, alla classe, all'etnìa, e "l'alterità" quale scoperta dell'irriducibilità dell'Altro, del suo corpo e del suo comportamento. Né più e né meno che la riformulazione di un'equazione pragmatica che (a livello biologico) ci fa scoprire tutti uguali nella nostra diversità.
"L'idea che sta all'origine della mostra -sostiene Jean Clair- deriva dalla constatazione che la nascita della Biennale coincide con l'introduzione della pratica della fotografia d'identità nella società civilizzata". Ed infatti c'è un filo sottile che lega pittura e fotografia il cui rapporto di amore-odio ha costantemente accompagnato i numerosi momenti di "contatto" che l'arte del pennello e l'arte dello scatto hanno vissuto nel corso di quest'ultimo secolo, dalle esperienze neoimpressionistiche di derivazione chevreuliane all'idea del "circuito chiuso" dell'arte espressa da Paolini, via via passando attraverso le trasfigurazioni retoriche di Michetti, le polaroid serigrafate di Warhol, gli specchi riflettenti di Pistoletto e le performance surrealistiche di Gibert e George, tanto per citare.
E proprio alla fotografia è dedicata una delle molte sezioni di questa Biennale il cui titolo "L'io e il suo doppio -Un secolo di ritratto fotografico in Italia 1895-1995" intende celebrare l'inaugurazione del negozio Alinari a Venezia avvenuta solo cinque giorni prima dell'inaugurazione della prima Biennale.
Curata da Italo Zannier in collaborazione con Susanna Weber, la mostra presenta le immagini più significative di circa ducento fotografi che con le loro immagini hanno documentato l'evoluzione del ritratto fotografico in Italia il cui percorso è articolato in cinque segmenti tesi a definire precisi periodi di riferimento.
Il prologo tratta la storia della fotografiadalla sua nascita (1839) al 1895 attraverso i preziosi ambrotipi, dagherrotipi e fotoceramiche dei ritratti della borghesia del tempo fra cui spicca un quadrittico in argento con le immagini della Contassa di Castiglione. Il periodo a cavallo del secolo (1895-1918) illustra le immagini dei grandi atelier italiani che sono attivi all'epoca tra cui i Brogi, gli Alinari, i Felici e poi Bettini ed Emilio Sommariva del quale sono esposte due bellissime foto di Lyda Borrelli.
Il periodo compreso tra le due guerre (1918-1945) è caratterizzato dal "pittorialismo" e dalla nascita dei primi fotomontaggi, mentre l'uso del ritratto fotografico intraprende le strade nuove e diversificate della propaganda politica e delle foto segnaletiche emblematicamente rappresentate dai ritratti al bromuro d'argento di Mussolini, D'Annunzio, dei dispersi e dei prigionieri di guerra. Nel quarto periodo sono rappresentati gli anni del neorealismo (1945-1968) e dell'avvento del fotogiornalismo che cn i suoi paparazzi ha scritto la storia della "dolce vita".
Chiude il teorema circolare tra arte e fotografia il periodo della sperimentazione (1968-1975) che, indagando profondamente nei contesti in cui vive l'uomo, affronta risolutivamente la parte del corpo dell'uomo che meglio esprime la sua identità ma anche la sua fondamentale ambiguità: quel "viso umano" che secondo Artaud è tuttora lla ricerca del suo volto e dopo duemila anni che soffre e respira è ancora un campo di rovine. A ciò valga il rinvio alle "Distopie" dei venezuelani Cucher e Ariz il cui rifiuto dell'identità come convenzione storica "rende difficile -come scrive Tahia Rivero- la delineazione di un profilo proprio e facilita il desiderio di costituirsi come altro da sé".
Simone Ricciardiello
La Trivella, novembre 1987.
Giornale di Vicenza, Cultura e Società, 22 settenbre 1995.
La vicenda umana e artistica di Massimo Bottecchia è la medesima che spesso accompagna la vita e il lavoro di coloro che hanno scelto la pittura come materializzazione del proprio egoismo intellettuale.
Mi spiego.
Colui il quale opera sulle immagini e mediante questa manipolazione provoca suggestioni estetiche che sollecitando il piacere appagano il gusto, se produce icone che rientrano nella tradizione figurativa denota un carattere partecipativo, altruista perchè gioisce nel trasmettere al referente occasionale l'idea ispiratrice del suo gesto: se viceversa adotta schemi desueti di comunicazione, astratti non solo ma addirittura di "mistificazione formale", allora è uno che non desidera intrusi nel suo sogno estetico, un egoista che gode a vivere in splendida solitudine il proprio processo di sublimazione.
Spinta dagli oscuri meccanismi legati al mondo dell'arte che tutti conoscono ma nessuno sa spiegare, l'Amministrazione comunale di Pordenone ha sciolto "il debito morale" che aveva con Massimo Bottecchia allestendogli una retrospettiva nell'ex Convento di S. Francesco a otto anni dalla sua morte avvenuta a Milano all'età di 52 anni.
Il debito morale cui si riferisce il sindaco di Pordenone, dalle pagine dell'esauriente catalogo Electa curato da Vincenzo Perna responsabile anche della meticolosa schedatura delle opere esposte, è il riconoscimento, purtroppo postumo, della qualità di un artista locale il cui lavoro è stato semplicemente ignorato per circa trent'anni da una città che all'epoca stava subendo in pieno l'evoluzione che l'avrebbe trasformata da società rurale in realtà industriale. E si sa che il raggiungimento di un diffuso benessere economico non sempre significa anche appagamento delle urgenze culturali; anzi, spesso la rapida trasformazione del tessuto societario ha portato con sè la periodica riaffermazione del kitsch.
Ma il sindaco di Pordenone si tranquillizzi, tante altre città italiane sono state avare con i propri figli migliori, specialmente quando essi hanno praticato il difficile terreno della sperimentazione.
Bottecchia però è stato anche uomo di profonde contraddizioni. Studia i classici dell'incisione e al segno tormentato di Goya, a quello profondo di Durer, preferisce la rigidità compositiva del linearismo ortogonale; analizza il divisionismo scientifico di Seurat e Signac, e, lungi dall'applicare le teorie di Runge, Newton e Itten, affida alle "texture gradienti" la strutturazione in superficie di uno spazio mentale, psicologico, più che estetico; attraversa il fecondo periodo di scontro tra pop e concretismo restando però fedele alle teorie gestaltiche su cui fonda le sue metamorfosi visuali.
Ecco la mistificazione formale cui Bottecchia si abbandona; le sue opere sono impostate sul principio dell'ambiguità: "la possibilità cioè di una doppia lettura d'un pattern visuale che svela quella che è una nostra quotidiana modalità percettiva" secondo Gillo Dorfles.
Questa realtà soggettiva viene descritta metodicamente e in superficie mediante ragnatele a china che nascondono un'altra realtà più profonda e travagliata: la ricerca e l'affermazione dell'Idea attraverso una probabile modulazione timbrica dello spazio fenomenico, usando gli attrezzi con i quali si è suicidato tutta una vita, la riga e il rapidograf.
Ma l'idea si afferma se esprime una verità; e allora, la verità deve essere "bella?" Oppure l'idea può essere soltanto "buona?" Enzo Perna, che sull'argomento la sa lunga, libera il campo da ambigui preconcetti e dice che "ci sono opere belle, così ben fatte che pure non dicono nulla, passano attraverso la percezione dei nostri sensi senza lasciare una traccia, senza dispiegare un senso da tesaurizzare. E ci sono invece opere che sono —meno "belle" e talvolta meno ben fatte che invece ci graffiano, ci colpiscono, incidono un segno nella nostra esperienza—.
Ecco, Massimo Bottecchia, tanto per ritornare al punto di partenza, è stato uno che ha sperimentato tutta la vita una metodologia di comunicazione forse non "bella", ma sicuramente"colta" e questo, ancora oggi, la nostra società non è disposta ad accettare.
Bottecchia ha sempre privilegiato il progetto; i percorsi dei segni ripetuti portano in sé il senso della cancellazione per cui l'analisi progettuale procede su quantificazioni che mentre si propongono continuamente si annullano, modificando senza soluzione di continuità la funzionalità significativa dell'invenzione artistica. Si potrebbe definire questo artista come l'inventore di un linguaggio macchina, un pacchetto predisposto per la programmazione di sequenze grafiche funzionali finalizzate alla decodificazione computerizzata di una spazialità introspetta.
In definitiva, la mostra di Pordenone dispiega per una lettura finalmente distaccata e/o ragionata le opere di un artista che durante tutto l'arco della sua attività ha sempre ricercato con affanno quella luce che, come sottolinea Vincenzo Perna, era già presente negli anfratti oscuri delle sue trame segniche.
La sua città natale ha sciolto il proprio obbligo morale, Massimo Bottecchia avrebbe goduto di più questo momento se fosse stato presente il 20 dicembre al discorso inaugurale del sindaco di Pordenone.
Simone Ricciardiello
La Trivella, giugno/luglio 1989.
Dal 17 al 27 settembre 1987 la città di Vicenza ha ospitato la XXXIX edizione del Premio Italia.
Vale forse la pena di spiegare, per quanti ancora non lo sapessero, in cosa consiste questa prestigiosa manifestazione.
Il Premio Italia, nato da un'iniziativa dell'allora "Radio Italiana", è stato fondato nel 1948 a Capri ove i rappresentanti di quattordici enti radiofonici si riunirono con l'intenzione di affermare la validità estetica di una espressione ormai largamente diffusa e che attirava verso la radio scrittori, poeti e musicisti.
Dal '57 il Premio fu assegnato anche per i programmi televisivi. Dalla ribalta di questa manifestazione sono passati autori, compositori, registi, sceneggiatori famosi o destinati a diventarlo.
Migliorare la qualità della produzione radiofonica e televisiva e favorire incontri e collaborazione tra coloro che operano nel settore della comunicazione multimediale sono gli scopi che hanno ispirato l'istituzione del Prix Italia.
L'organo direttivo è costituito dall'Assemblea Generale formata dagli Enti aderenti. La Rai nomina il Segretario Generale, responsabile dell'organizzazione.
Le giurie per la musica, il dramma e il documentario agiscono secondo un criterio di rotazione, per cui ogni ente sottopone i propri programmi a quelle giurie ove mancano i propri rappresentanti.Per ogni settore viene quindi designato un vincitore per i programmi radio ed uno per i programmi televisivi più un premio speciale per ognim giuria. Quest'anno l'ammontare del premio è stato di dieci milioni di lire. I sessanta milioni da assegnare ai vincitori costituiscono la somma delle quote versate da ciascun ente aderente.
Con questa edizione, lascia la carica di Segretario Generale Alvise Zorzi. Autore di saggi storici è stato responsabile dei programmi culturali televisivi fino al 1961, organizzando, primo in Italia, trasmissioni televisive scolastiche (Telescuola) e contro l'analfabetismo (Non è mai troppo tardi) nonchè la prima trasmissione in Eurovisione, nel 1954, (Visita al Vaticano).
Ma per tornare al concorso vero e proprio, ecco i vincitori di questa XXXIX edizione:
PREMIO ITALIA per il miglior programma musicale radiofonico a "Et si tonte entière maintenant" di Luc Ferrari su testi di Golette Fellous, prodotto da Frante-Culture, Francia.
PREMIO ITALIA per il miglior programma musicale televisivo a 1l diluvio", musica di Igor Stravinsky su libretto di Robert Craft con la regia di Jaap Drupsteen e prodotto dalla NOS olandese.
PREMIO ITALIA per il miglior programma drammatico radiofonico assegnato a "Passaggio a nord-ovest" di Heinz von Cramer, Guntran Vesper, Johann M. Kamps e Jurgen Dluzniewsky, presentato dalla Rep. Fed. Ted. Questo lavoro è stato considerato il migliore in assoluto "per l'eccellenza delle sue qualità, prese nel loro insieme".
PREMIO ITALIA per il miglior programma drammatico televisivo a "Dopo Pilkington", úi Christopher Morahan su testo di Simon Grey, fotografia di Andrew Dunn, presentato dalla BBC ed attribuito con la stessa motivazione del precedente.
PREMIO ITALIA per il miglior programma radiofonico documentario a "Una generazione a nudo" di Immaculada della Cruz, Ramon Trecet e Francisco Molina. Presentato dalla Spagna è stato assegnato a maggioranza assoluta "per la qualità del suo insieme".
PREMIO ITALIA per il miglior documentario televisivo assegnato a "Ieri" realizzato da Sten Baadsgaard, fotografia di Soren Ingemann, suono di Ib Ankerstjerne, presentato dalla Danimarca.
Tralascio di menzionare in questo articolo tutte le opere segnalate, i premi speciali e le caratteristiche dei lavori premiati per ovvii motivi di spazio, riservandomi di scriverne in futuro.
Detta così, può sembrare semplice, ma vi assicuro che seguire i lavori nella loro globalità ha richiesto sforzo fisico ed impegno mentale sia ai delegati delle varie nazioni che ai giornalisti accreditati.Basti pensare che per la sezione musica, 15 paesi hanno presentato 22 opere radiofoniche (per più di 13 ore d'ascolto); mentre 16 paesi con 19 opere hanno concorso 'per la televisione (più di 20 ore di programmazione); per l'ecologia 8 paesi con un lavoro ciascuno; per il dramma Rai 16 paesi con 24 lavori, per quello televisivo 17 paesi con 21 lavori. I documentari presentati erano 21 per un totale di 21 ore di trasmissione. Per l'ecologia 13 programmi con circa 8 ore.
Prix Italia è però, e soprattutto, motivo d'incontro tra gli organismi mondiali della comunicazione multimediale da qui l'interesse a seguire i vari convegni per conoscere le strategie di una informazione che diventa sempre più importante e che richiede sempre più attenzione.
Nel meeting sul ruolo della radio nell'epoca della televisione" tenuto tra il 21 e 22 settembre, Biagio Agnes, direttore generale dell'azienda Rai, parlando sui progetti e le iniziative della radio, ha presentato due proposte per il futuro: la prima, di elaborare 'un progetto di cooperazione internazionale per rimuovere le cause che costituiscono barriera tra progresso e sottosviluppo; la seconda, che riguarda l'utilizzazione del satellite per i programmi rai, prevede di dedicare alcune ore a programmi musicali che siano qualitativamente paragonabili al compact-disc stereofonico.Ha poi accennato polemicamente sul rapporto con le emittenti private e, parlando della pubblicità, ha detto che la Rai cercherà di affermare la sua presenza sul mercato con azioni diversificate nei vari comparti delle telecomunicazioni.
Molto interessante l'intervento di Claus Dieter Rath, collaboratore dell'Istituto di Semiotica e Teoria delle Comunicazioni dell'Università di Berlino, il quale ha parlato del rapporto con (l"apparecchio" radio, parte della cultura materiale del nostro quotidiano, la cui funzione non sta solo nella sua capacità di trasmettere, ma anche nella sua valenza sociale di mediazione tra forma e contenuto. Ha poi accennato sulla cultura linguistica della radio, sul "colore" musicale e sulla parte "attiva" che la riguarda, vedi quiz, richieste musicali, indovinelli a premi.
Peter Menner, altro illustre ospite, ha relazionato sul consumo di radio che è passato dalle circa 20 ore settimanali del 1951alle quasi 40 procapite attuali.
In sostanza i convegni hanno affermato che la radio torna a proporsi prepotentemente all'attenzione perchè le attuali generazioni ne hanno scoperto il fascino che ha legato ad essa i nostri padri. Un fascino dovuto alla possibilità di grandi suggestioni immaginative oltre che alla praticità d'uso del mezzo tecnico.
La cerimonia della premiazione di sabato 26 settembre si è svolta in collegamento Eurovisione, alla presenza del sindaco di Vicenza, del presidente della Giunta Regionale Veneta, del direttore generale della Rai e del ministro Oscar Mammì.
Le numerosissime personalità presenti, l'elegante pubblico invitato, i delegati ed i colleghi della stampa, hanno costituito la cornice ideale per la prestigiosa sede del Teatro Olimpico, per l'occasione rimesso a nuovo, che ha ospitato la manifestazione di chiusura.
Simone Ricciardiello
La Trivella, novembre 1987.
Il Premio Italia, oltre al suo significato intrinseco, racchiude in sé motivi di vasto interesse, prova di ciò sono le dispute legate alla designazione della città ospitante sulla quale, per una decina di giorni, sono puntati gli occhi degli addetti culturali sia nazionali che internazionali.
Intanto il Premio Italia, come immediato riscontro, ha sempre avuto il merito di restituire alla città che l'ha ospitato un edificio di grande pregio storico; per Vicenza questo ha significato la riacquisizione del complesso di S. Corona, appositamente restaurato, nei cui magnifici spazi sono state allestite salette di proiezione, sale convegni, salette singole per visione registrazioni e sale riunioni giurie. II favoloso chiostro, con un manto erboso da far invidia a Wembley, ha ospitato i breakfast per i delegati e gli ospiti.
Legate al concorso, numerose altre manifestazioni si sono svolte in Basilica Palladiana a partire dalle ore 21,00. Il numerosissimo pubblico, tra invitati e coloro che richiedevano gratuitamente il biglietto, ha potuto così assistere, tra l'altro, alla programmazione degli inediti Rai.
Il primo, "Le lunghe ombre" di Gianfranco Mingozzi della Raidue, film ambientato nel '44 nell'Appennino modenese, racconta l'amicizia di due adolescenti, Vito e Francesco, l'uno montanaro e l'altro cittadino, ed il loro passaggio dall'adolescenza all'età adulta attraverso l'incontro con la Resistenza e con una donna, Anna Giuliani (interpretata da Lina Sastri), rifugiatasi tra i monti.
Epilogo tragico da buon feuilleton, questo film ha steso effettivamente ombre troppo lunghe. Poco convincenti sia la trama, che forse doveva essere lasciata da sfondo al momento storico così come era nelle originarie intenzioni del regista, che le interpretazioni. Compresa quella della pur brava Lina Sastri che tuttavia non riesce mai ad entrare nel personaggio della diva del muto che impersona. Ben altro ella è in grado di fare quando interpreta personaggi più "carnali", vedi "Mi manda Picone".
II secondo film, "Lunga vita alla Signora" di Ermanno Olmi, è stato dei tre il più riuscito ed apprezzato. Narra, in modo trasognato ed ai limiti del reale, la prima esperienza di lavoro di un gruppo di ragazzi appena usciti da un Istituto Alberghiero in una casa ove una misteriosa signora, dall'età indefinibile (ha il volto sempre coperto da una maschera e parla a bassa voce solo con il suo accompagnatore), offre un favoloso banchetto ai suoi ospiti.
Il film è raccontato per sequenze attente e minuziose; scarni i dialoghi, si corre sul filo dell'introspezione e della ricerca di una possibile identità dei vari personaggi. Il racconto si legge bene e piacevolmente attraverso gli sguardi e i movimenti dei bravi interpreti.
Il terzo film in programma, "Un'australiana a Roma" di Sergio Martino, prodotto dalla Terza Rete TV, cito per dovere di cronaca. Narra di due ragazze australiane che giungono a Roma a bordo del loro sidecar. Qui conoscono il giovane rampollo di una nobile famiglia romana il quale s'innamora di una della due. Questa intensa storia d'amore è interrotta da un grave incidente subìto dal ragazzo. L'assistenza all'infermo fa sì che la ragazza sia in stretto contatto con il fratello del giovane; da ciò una nuova love story che troverà il suo epilogo quando, alla morte per suicidio del fratello, questi decide di seguire la ragazza in Australia.
I cortesi lettori avranno già capito di che razza di big-burger (leggi polpettone) si tratta. Una storia da Grand-Hotel che è assolutamente improponibile ai nostri giorni; un non-sense in cui risultano privi d'interesse sia la trama che i personaggi. E mi fermo qui.
Tutte le proiezioni sono state effettuate su schermo gigante elettronico, in lingua originale, con traduzione simultanea in italiano.
In definitiva, fatte alcune doverose considerazioni, si possono trarre delle conclusioni. Oggi il cinema italiano rischia di commettere gli errori che ha già commesso il mondo dell'arte italiana. Dare fiducia e spazio ai giovani è cosa buona e doverosa, ma se ciò, diventando moda, rasenta la mania, allora si commette una ingiustizia storica nei confronti di coloro che pur bravi hanno sofferto la presenza dei "mostri sacri" un tempo intoccabili e che oggi, nella loro maturità, potrebbero offrire un contributo culturale di grandissima professionalità, maggiore, ritengo, di quelli che tale professionalità devono ancora acquistarla.
Il contributo che la Rai TV può dare al cinema, con le sue risorse e le sue tecnologie, è di enorme portata, ma finchè l'amministrazione delI'Ente sarà lottizzata dai partiti, altro che "Australiane a Roma" dovremo sopportare. Con grave danno per la crescita economica, e, se permettete, culturale del Paese.
Il Premio Italia 1987 è finito: evviva il Premio Italia 1988. Quest'altra volta a Capri.
Simone Ricciardiello
La Trivella, novembre 1987.
"Un tratto di dadi / benchè lanciato in circostanze / eterne / dal fondo d'un naufragio / sia / che / l'abisso / imbiancato / stante / furioso / sotto una inclinazione / piana disperatamente d'ala..." è il bellissimo e disperato "Coup de dés" con il quale nel maggio dei 1897 Stéphane Mallarmé letteralmente esplode le sue teorie (poeticamente) eversive contro gli angusti limiti formali del positivismo letterario.
Ma scritti e/o letti così, questi versi non chiariscono la novità stilistica enunciata dall'autore che consiste nella dislocazione progettuata delle parole e delle frasi sulla carta in modo tale che la lettura del testo subisca delle mutazioni: pause o accelerazioni; silenzi o clamori che fanno di questo il primo esempio di "poema in prosa" o addirittura di fonema. Ma non solo, il gioco dei corpi, delle giustezza e delle tipologie dei caratteri, con la loro particolare collocazione nel foglio, fungono da chiari e scuri, tonalità cromatiche quindi, in modo da offrire al fruitore del poema quella che si può definire "visione simultanea della pagina". Concetto molto vicino alla intenzionalità logoiconica.
È questa una profonda innovazione che circa tredici anni più tardi sarà ripresa dal Futurismo la cui poetica, analogamente, tendeva alla distruzione dei codici sintattici, fortemente motivata com'era, ma soprattutto condizionata dallo sviluppo tecnologico che faceva l'automobile "più bella della Nike di Samotracia". Una polverizzazione dei canoni linguistici tutta tesa a far "saltare il tubo del periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell'aggettivazione" producendo quindi "parole in libertà", le stesse dei testi-poemi di Carlo Belloli per le quali, per la prima volta in assoluto viene usato nel 1944 da Marinetti il termine "Poesia visiva".
Bisognerà comunque aspettare ancora vent'anni affinchè questa pratica polifunzionale assuma carattere di autonomia estetica, in pieno clima di fervore concettualistico, sfociando in un vero e proprio stile artistico grazie alle teorizzazioni e ai nuovi sistemi espressivi del "Gruppo 63" prima e del "Gruppo 70" poi.
Questa premessa era indispensabile per introdurre la mostra "Poesia Visiva" - 1963/1988, Cinque Maestri - che, partita dalla Galleria d'Arte Moderna di Verona, passata da Palazzo Cocchi Serristori di Firenze, è stata visibile a Napoli presso il Castel dell'Ovo nel mese di febbraio '89.
La mostra, curata da Eugenio Miccini e Sarenco, presenta parte della produzione artistica che va dai primi anni sessanta ad oggi di cinque esponenti autorevoli di questa particolare forma d'arte che sono, oltre ai due curatori, Ugo Carreca, Stelio Maria Martini e Lamberto Pignoli.
Il voluminoso catalogo, ottimamente curato da Adriana Casu, donna estremamente gentile oltreche preparata, più che una presentazione, contiene un esaustivo saggio sulla poesia visiva di Matteo D'Ambrosio che ripercorre in maniera analitica le varie tappe di questo settore e le "situazioni" ad esso legate nonchè un utilissimo quanto prezioso riferimento alla parte bibliografica.
Parlare oggi di Poesia Visiva è una scommessa con se stessi. È infatti un campo questo nel quale quei pochi addetti che si sono addentrarti si muovono con grande circospezione, cercando cioè di non tralasciare nomi (non tantissimi per la verità), date, situazioni che possano far torto ad alcuni a vantaggio di altri.
Tra gli interventi contenuti nel catalogo c'è quello, dovuto ad Egidio Mucci, che molto opportunamente direi chiarisce anche il perchè i cinque artisti della mostra vengono definiti maestri.
Ma, al di là della definizione da dizionario che egli dà del termine "maestro", si può tranquillamente affermare che ognuno dei cinque, oltre all'attività di tipo così dire "operativo", ha consumato litri d'inchiostro, usato chilometri di pellicola, profuso milioni di parole sulla manipolazione del linguaggio legato alla comunicazione; ognuno per proprio conto oppure insieme nelle varie proposte di Poesia Visiva.
Certo, parlando di poesia concreta, diretta emanazione del filone concettuale, non si può fare a meno di ricordare alcuni degli artisti che hanno fornito eccellenti esempi di poesia visiva quali De Campos, Kriwet, Parmiggiani, tra gli altri, e poi Ori, Castellano, Marcucci.
"Dio è un essere perfettissimo come una VOLKSWAGEN" è l'opera del '66 di Emílio Isgrò che più apertamente dichiara la subordinazione alla poetica futurista cui i poeti visuali dapprima prendono le distanze, quasi a reclamare una autonomia propositiva, e poi ammettono, riconoscendone le motivazioni d'avvio.
Ed in entrambi i casi, pur così distanti nel tempo tra loro, il fattore comune che ha enormemente influito sulle scelte estetiche degli operatori di questo settore è stato il fascino che ha esercitato su di essi la "pratica" (nel senso di uso) di tipografia (nel senso di luogo). Ecco, non a caso, uomini di lettere innanzitutto, uomini abituati per il proprio lavoro a respirare l'aria che sa di petrolio e d'inchiostro litografico, intravvedono la possibilità di operare sul significante più che sul significato. E tali possibilità si moltiplicano con !o sviluppo tecnologico delle macchine da stampa, con l'avvento della cromolitografia (1836), della linotype (1886), della rotativa (1892), fino ai risultati resi possibili via via dall'impiego della fotocomposizione, della fotoincisione, dall'uso dei più moderni raster e del computer che attualmente "tratta" il carattere tipografico come fosse di gomma, restituendolo alla pellicola fotomeccanica allungato, ristretto, allargato ed altre diavolerie ancora.
Carrega, Martini, Miccini, Pignotti e Sarenco, tutti poeti, tutti fondatori di riviste letterarie (rispettivamente "Ana Etcetera", "Documento Sud", "Téchne", "Quartiere" e "Amodulo"), tutti colpiti dal "virus" ammaliante della tipografia, cominciano ad operare nel clima arroventato e irripetibile dei favolosi anni sessanta, quando "cioè" il dibattito sul linguaggio s'impone con grande prepotenza. Un periodo in cui l'immagine diventa sempre più indispensabile nel settore della comunicazione visiva intanto che il sistema del condizionamento dei media inizia la sua imponente e devastante ascesa.
La mostra di Firenze su questi cinque maestri della poesia visiva che ci offrono uno spaccato sufficientemente ampio ed esauriente della loro poetica, se da un lato mostra i limiti formali di una metodologia estetica che stenta a rinnovarsi, dall'altro impone una opportuna indagine sociologica riconducibile alla lettura dell'immagine nonchè all' "uso" della parola che ognuno di essi conduce e che si afferma in virtù della loro diversa provenienza geografica. Differenti realtà e differenti culture che evidentemente filtrano il "messaggio", riportandolo entro matrici che trovano la loro collocazione nella loro stessa "storia".
Sarà interessante a questo punto vedere se e come questo settore si evolverà e con l'uso di quali tecnologie di materiali, proprio oggi che il confine entro il quale si muovono arte-fotografia-computer design è diventato estremamente labile. Oggi che si sente sempre più pressante l'esigenza di una regolamentazione delle "tecniche di persuasione" che addirittura possono risultare pericolose quando, agendo a livello subliminale, possono condurre l'umanità all'autoalienazione per sindrome da consumo.
Simone Ricciardiello
La Trivella, gennaio/aprile 1989.
Una volta tanto un festival di partito nell'ambito del suo programma, oltre che politica, musica folk e varia umanità, riesce ad offrire cultura visiva. Ma limitarsi ad un'espressione generica di questo tipo non chiarisce minimamente il valore di questa mostra, estremamente curata e dal preciso taglio critico.
L'occasione è stata fornita dalla XII Festa Nazionale dell'Amicizia tenuta quest'anno a Verona dal 3 all'11 settembre nell'accogliente spazio del Centro Fiera.
Davanti al padiglione N. 1 una bellissima grande aiuola, finta, messa su a tempo di record, togliendo all'ambiente l'aspetto freddo ed impersonale proprio di una quartiere fieristico, predispone il visitatore allo stato d'animo più vicino al sensibile, ideale quindi per una fruizione volontaria dell'opera d'arte.
La mostra "Molte bianche ali sospese, sì gli aquiloni" titolo dal sapore leggermente eccentrico, riunisce su invito del suo curatore, lo storico dell'arte Luigina Bortolatto, un gruppo di artisti dell'Italia, del Belgio, Corea del Sud, Francia, Germania Federale, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Jugoslavia, Perù, Stati Uniti, Uruguay e dell'Istituto Europeo dell'Acquerello di Bruxelles.
E proprio un aquilone funge da presenza-vate all'ingresso dell'esposizione, introducendo il referente in un ambiente strutturato senza soluzione di continuità, caratterizzato da una perpetua modificazione visiva. Un percorso di grande suggestione cromatica accompagnato da un dolce, melodico suono, dapprima appena percettibile, poi via via più intenso man mano che ci si avvicina al settore delle sculture.
"Hanno gli occhi nelle stelle e l'anima nel mare", con questo frammento Aristea descrive gli Iperborei il cui signore, dio del vento del nord, è rappresentato da una figura con lunghe chiome, munita di ali. Diventato il dio Aquilone, per una diversa convenienza, specchiata nella luce aperta, soliva, della memoria, regge "molte bianche ali" nell'aria lieta e malinconica ad un tempo.
La Bortolatto prende a pretesto l'evento pascoliano per operare magistralmente una simbiosi tra personaggi (il mito e la storia) da una parte e situazioni (realtà sociale ed esigenza culturale) dall'altra.
Ecco come il taglio estetico ed il titolo di una mostra s'impongono e diventano determinanti per la sua lettura critica. Quindi il grande merito di questa donna tanto sensibile e dolce quanto sicura e determinata va individuato nell'aver saputo chiarificare il senso compiuto del lavoro dell'operatore visivo nella società moderna ove la contraddizione tra mercato e produzione impone all'artista un ruolo non già fisso e preconfezionato bensì in continuo mutamento.
L'artista, con "gli occhi nelle stelle", si eleva con le sue ali e come un aquilone, dall'alto, domina un mondo che può finalmente valutare ed esprimere in perfetta autonomia.
Nello spazio riservato agli scultori le sollecitazioni sensoriali si moltiplicano e costringono il visitatore ad una duplice fruizione, l'una giustapposta all'altra; suono e materia: memoria e coscienza.
Il bellissimo brano che funge da leit-motiv alla passeggiata tra le sculture è del maestro Giusto Pio, per il grosso pubblico legato al nome di Battiato. Registrata su multitraccia Akai e mixata attraverso cuffie predisposte in un punto centrale del padiglione, la musica, basata su dissonanze ed effetti speciali, magicamente libera la scultura dal suo peso specifico facendola "Corte di Nefertiti" (è il titolo del brano) assorta nel limbo di una stagione ricondotta ad un tempo sospeso, di origine e di estremità della vita.
Un percorso sonoro che svela, tra intricati dedali, intatte grazie.
Simone Ricciardiello
Dopo la piccola ma rigenerante pausa estiva, credo sia utile e piacevole soffermarsi su due importanti mostre inaugurate di recente, una già chiusa e l'altra ancora aperta e, tutto sommato, da visitare.
Dunque, Jasper Johns ce l'ha fatta, ha vinto il XLIII Festival della Pittura Italiana ed è contento tanto quanto lo è stato Leo Castelli che così aggiunge un altro Leon d'oro al suo palmares di gallerista dopo quello del '64 con Rauschenberg. E con lui si dichiarano contenti tanti, forse troppi, mercanti, galleristi, operatori del settore tranquillizzati sin dall'inizio, da quando cioè hanno capito che questa Biennale del non-sense non avrebbe costituito alcuna minaccia per le loro alchimie mercantili, anzi consentirà loro di campare di rendita almeno altri dieci anni.
A sentirli, molti tra gli osservatori, sia italiani che stranieri, hanno tessuto le lodi di Carandente, ormai celeberrimo responsabile del settore delle arti, ma questi virtuosi formalismi dettati da diverse convenienze, non possono trarre in inganno; la realtà è che questo novello eroe lagunare ha accettato l'incarico di fare la Biennale in così poco tempo perchè sapeva di poter allestire "questa" mostra, senza infamia e senza lode, puntando sul sicuro e, si fa per dire, senza scontentare nessuno di quelli che hanno un peso specifico ben consolidato nel panorama attuale.
Se avessero chiesto a me di provare, ed io avessi voluto fare come Carandente, vi assicuro che, Art Diary alla mano e cabina telefonica "a gratis", l'avrei così organizzata in due mesi anzichè in quattro.
Si vocifera che finalmente la Biennale Internazionale d'Arte di Venezia è ritornata agli artisti, pochi ma selezionati e presentati monograficamente, tuttavia la sensazione è che questi artisti sono gli stessi che qualsiasi galleria privata è in grado di presentare, cosa che avviene puntualmente, e che ogni curatore di ricche mostre pubbliche crea, senza eccessivi sforzi per la verità, di tirarsi dentro.
Ma quel che è peggio è che molti di questi consolidati "mostri sacri" dell'arte denotano concreti segni di stanchezza: Burri, Kounellis, Twombly e lo stesso Jasper Johns, grandissimi artisti che oggi, perso lo smalto che solo la rabbia ti dà, mostrano l'affanno dovuto alla rincorsa al Tempo. Quindi Biennale tutta da censurare? Certamente no. Si sono viste delle bellissime cose sia tra i pittori, Carla Accardi tanto per non fare nomi, che tra gli scultori che nei Giardini sono dislocati quasi a postulare una severa quanto urgente chiarificazione sul ruolo della scultura nel campo della comunicazione contemporanea. Ma ciò è ben poco per una manifestazione che, per statuto e tradizione, vorrebbe essere tutt'altra cosa.
Anche i giovanotti di Aperto '88 evidenziano in pieno tutte le contraddizioni del settore, ma vivaddio costituiscono un percorso modulare vivace e piacevole, discutibile fin che si vuole, ma almeno da valutare "in divenire".
C'è poco da fare, in manifestazioni che come questa rispondono a precise leggi di mercato, è problematica quanto inutile la scoperta del nuovo. La "ricerca" è quella che tra mille difficoltà si compie nel comparto meno ricco dell'arte figurativa e che deve essere resa possibile dall'azione continua e mirata delle strutture pubbliche legate ai dipartimenti culturali di Comuni, Province, Regioni, certamente più attente alle varie realtà locali, quindi meno dispersive e maggiormente propositive.
Dalla Biennale dei soliti noti, a quella dei soliti ignoti. Finalmente dopo anni di attese, speranze, discussioni e lotte fratricide è stata varata la famosa Biennale del Sud. Varata con un colpo di bottiglia (il titolo) che l'ha demolita prima ancora che toccasse il mare. Quel mare, il Mediterraneo, che poteva con ben altro effetto far parte del "logo" della mostra.
Questa rassegna, riservata agli artisti dell'area meridionale, si è autoemarginata nel momento stesso in cui ha scelto termini "geografici" di antitesi verso l'altra più famosa cui invece doveva confrontarsi in termini di cultura e creatività. E le caratteristiche stesse, tipiche e di grande fascino, delle genti mediterranee potevano costituire favorevoli alternative sulle quali puntare onde prospettare una realtà artistica "altra" non valorizzata, anzi mortificata dal "sistema" nazionale dell'arte.
Invece nasce povera, malamente pubblicizzata, di breve durata, in locali poco idonei, e come è sempre successo a Napoli caratterizzata da un alto tasso d'inquinamento clientelare. Per cui si assiste alla presenza, ingiustificata, di parenti, amici, amici degli amici, protetti e protettori, alcuni dei quali letteralmente estratti da un invisibile cappello a cilindro, che occupano il posto di alcuni di coloro che, nei limiti del nichilismo meridionale, hanno tracciato un segmento della storia dell'arte nel regno delle due Sicilie.
Ma soprattutto è un'occasione questa per ricordare "assenze giustificate" di alcuni operatori di grande talento per i quali questa biennale (quale possibilità di offrirsi ad una ribalta extra-locale) è giunta troppo tardi. Amici scomparsi da pochi anni e che, per usare tipologie dialettiche sportive, non ancora hanno trovato validi rincalzi. AntonioVenditti, Guido Tatafiore, Raffaele Lippi, Lello Jandolo, artisti di grande temperamento la cui impronta è spesso visibile nelle opere di coloro che, a ragione o a torto, hanno occupato le bellissime sale ristrutturate dell'Accademia di Belle Arti di Napoli.
Si sa, via Costantinopoli non è il Canal Grande pur tuttavia converrebbe puntare tutto su di un'inversione di tendenza che il grande circo dell'arte avverte già da un pezzo, questo però esigerebbe due grossi sacrifici cui laggiù, nello stretto budello d'Italia, nessuno ha veramente intenzione di sottomettersi: investire in soldoni (il doppio che a Venezia) per offrire concorrenzialmente cultura, folk e bellezze naturali che da sempre altri invidiano nonchè uscire finalmente dalla logica deleteria del facile provincialismo e del favoritismo tout-court.
Simone Ricciardiello
La Trivella, sembre/ottobre 1988.
"E' consuetudine civile che il Capo dello Stato, alla fine dell'anno e all'inizio dell'anno nuovo, si rivolga a tutti i concittadini per inviare ad ognuno di essi il suo affettuoso augurio...
La Repubblica Italiana fondata sul lavoro è una realtà che si afferma con forza sempre crescente tutelata dalla cosciente determinazione di tutto il popolo, dalla fermezza democratica di coloro a cui il popolo ha confidato il governo della Cosa Pubblica e dalla lealtà democratica degli Organi dello Stato. Mi è caro rinnovarvi i miei auguri di bene aggiungendovi quel voto che tutti li comprende e che si esprime nell'augurio di ogni bene alla nostra Italia. Viva la Repubblica, viva l'Italia". È la voce di Giuseppe Saragat che dal piccolo schermo a diciassette pollici formula i tradizionali auguri agli italiani per quello che, secondo una vecchia cabala popolare doveva essere un anno perfetto, addirittura esplosivo sotto l'aspetto economico e finanziario.
Invece il 1968 di esplosivo ebbe le molotov dei contestatari da una parte e i lacrimogeni dei celerini dall'altra, il tutto col sottofondo degli spaventosi echi dei colpi dei mortai sparati a Da Nang e Khe Sanh a sud del Vietnam.
Sono passati vent'anni da quell'anno e forse non è ancora tempo di bilanci, di conclusioni, soprattutto perchè molti testimoni di quei fatti devono ancora dar conto delle scelte fatte, degli errori commessi. Anche se oggi siedono sugli alti scanni di quella "società borghese" che allora aspramente combatterono. Né qui si vuole fare un'indagine sociologica del periodo storico; solo tentare una focalizzazione di quell'anno legando la cultura visiva agli eventi mediante un'ottica circolare che abbia come centro il sessantotto.
La Popart americana, presentata nella Biennale di Venezia nel 1964, aveva provocato in Italia un'onda d'urto eccezionale durata almeno un triennio durante il quale anche tendenze quali New Dada e Nuova Figurazione puntavano all'esorcizzazione dell'oggetto mediante la creazione di nuove icone ad esso strettamente connesse.
La denuncia del malessere della società e dell'individuo all'interno di essa era l'espressione e l'essenza stessa dell'opera d'arte, e stava alla base del processo creativo: l'uomo è solo. Solo con se stesso ed anche con gli altri se gli altri sono soggetti alienati ed annullati da un sistema postindustriale che produce consumi e miti.
Ma l'America si era già "iniettato il Vietnam"; aveva già i "figli dei fiori" del campus di Berkeley, si reggeva su un modello capitalistico atto a produrre più di quanto riuscisse a consumare.
L'Italia invece, erede degli anni del bum economico e avviato verso gli anni bui della recessione, tranne gli innocui capelloni, non poteva vantare grosse piaghe sociali. Tuttavia aveva i miti, numerosi e consolidati. E proprio grazie a questi grandi, belli, intoccabili eroi del dogmatismo imperante, se avevi vent'anni eri fregato.
Ai giovani artisti era preclusa qualsiasi tipo di attività espositiva; se non avevi un ''curriculum" lungo così non eri nessuno. Mercato: zero. Gallerie? Nemmeno a parlarne.
Con il '66 cominciavano ad affiorare i primi palesi segni d'insofferenza sia verso l'arte "di mestiere" che verso quella larga fetta di pittura denominata "Informale caldo" che al tempo trascinava stancamente le sue onorate spoglie. Di lì a poco, con i primi documenti degli studenti contro l'università quale "strumento di classe", ha inizio il cosiddetto sessantotto anche se siamo nel 1967.
Le strutture vacillanti di una scuola ormai vecchia, la famiglia e la società in piena crisi di trasformazione sono gli elementi scatenanti della contestazione che caratterizza quest'epoca storica colma di tanti lutti eppure così fondamentale per l'acquisizione di una ''nuova coscienza''.
Quasi subito gli studenti ritengono fondamentale il collegamento con gli operai, cui si sono ispirati per le loro rivendicazioni, perchè capiscono che è impossibile scardinare la ''scuola di classe" senza scardinare la ''società di classe" che gli operai combattono ritenendola al servizio del padrone. È una crisi che gli artisti vivono con estrema difficoltà. Sul rapporto tra arte e società sono concentrati tutti gli interessi degli operatori estetici. Può esistere un legame tra l'uomo e una società che produce guerra come pratica scientifica di distruzione, che annulla i valori umani, che proietta l'individuo in un vortice di sfrenato consumismo? E l'opera prodotta, anche se in sintesi creativa, è lecito sia diretta ad un mercato che la ricicla come oggetto di consumo?
Questa profonda contraddizione si risolve, secondo Argan, con la morte dell'arte.
Con l'azzeramento dell'autorità costituita, delle scale gerarchiche, degli schemi sin lì ritenuti sacri e inviolabili, si fa piazza pulita di tutte le tecniche atte a creare prodotti di consumo e ciò appare tanto più urgente ed inevitabile quanto più il bene-oggetto da tramandare alle future generazioni s'identifica con l'istituzione.
Del resto il concetto non è del tutto nuovo; già Lucio Fontana, nel '47, preconizzava la mortalità dell'arte quando, chiarendo la differenza tra immortalità ed eternità, dichiarava che bisognava sottrarre l'opera al vincolo della materia che la potesse rendere eterna (la filosofia dell'effimero tanto cara a Renato Nicolini, altro illustre personaggio di quel sessantotto): è invece fondamentale il "gesto", l'atto compiuto che resti eterno a significare una consapevolezza concettuale ed una cosciente operazione di sintesi storica. Né più né meno il senso dell'Arte Povera del 1968.
Nata in contrapposizione ad un "mondo ricco", l'arte povera cresce in un clima di esoterico primitivismo, una sorta di ritorno all' "uomo natura", fenomeno che ha caratterizzato gran parte del movimento studentesco italiano. E ciò spiega il ricorso ad un'arte che tende ad una impossibile deculturalizzazione, alla regressione dell'immagine la quale tanto ha influito sulla negazione del "concetto".
Dopo la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, nella primavera del '68 tocca alla Triennale di Milano ad essere occupata: Giò e Arnaldo Pomodoro, Dova e Treccani guidano il gruppo dei contestatori. Quindi è la volta della Biennale ove un gruppo di artisti capeggiati da Vedova e Luigi Nono costringe gli organizzatori a sospendere la cerimonia d'apertura. Sono solo pochi eclatanti esempi di una rivoluzione che invece una grande maggioranza silenziosa fece coi pennelli.
A Valdagno, una delle roccheforti del potere economico italiano, anche il Premio Marzotto vive giorni caldi; gli operai e gli artisti lo contestano decretandone in pratica la fine: gli uni sono contro lo sperpero dei fondi ad esso destinati, gli altri contro la meccanica dei premi di pittura che ritengono discriminanti.
Oggi Paolo Marzotto parla di "caotica demenza sessantottesca, ma la verità è che i personaggi chiamati a far parte delle giurie erano, ancora in quegli anni, legati alle tarde esperienze del primo Novecento italiano e quindi scarsamente inclini a valutare il profondo e irreversibile mutamento della cultura visiva nonchè le opere che, a questa cultura legate, esprimevano concetti estetico-ideologici che allora erano considerati rivoluzionari.
Di qui in poi, la ricerca artistica imbocca decisamente il lungo tunnel concettuale che sfocierà nell'era del Postmodernismo, passando attraverso Land Art, Poesia Visiva, Intermedia, tutte operazioni volte a presentare non tanto opere, quanto progetti e ideogrammi visivi: materiali svincolati dall'accaparramento snobistico di un selvaggio collezionismo internazionale.
E mentre sulla Terra i bagliori delle sanguinose rivolte in Messico e Cecoslovacchia, in Francia ed in America sono più accecanti che mai, in alto, dalla perfezione del cosmo, gli astronauti Borman, Lovell e Anders inviano gli auguri di Natale agli uomini di quell'indimenticabile, contraddittorio, incredibile 1968 tramandato alla Storia come "il Sessantotto".
Simone Ricciardiello
La Trivella, maggio 1988.
Diretto a Montecarlo per un servizio sul 19° Festival Mondiale del Teatro Amatoriale, quindi di passaggio da Bordighera, avevo intenzione di fornire ai lettori del nostro giornale notizie di prima mano sul 42° Salone Internazionale dell'Umorismo che, in procinto di chiudere i battenti, si prepara alla fase della premiazione che si svolgerà nel Casinò Municipale di Sanremo.
Ebbene: dopo aver fatto una prima sauna nelle stanze di Palazzo del Parco per visionare alcune centinaia di vignette sul tema "Un sorriso nel pallone"; dopo averne fatta una seconda mentre attendevo, nel suo negozio, che il promotore della mostra terminasse la conversazione telefonica con un misterioso, logorroico interlocutore (che ho immaginato sdraiato sotto verdi palme e accarezzato da una frizzante brezza marina), la mia buona volontà, messa a durissima prova dai trentotto gradi all'ombra che vanta Bordighera, si è dovuta arrendere alla praticamente nulla disponibilità del Signor Prefetto (per l'appunto curatore della manifestazione), il quale mi ha liquidato con un laconico: "Sono stanco". Quindi, niente intervista, niente servizio.
Tuttavia il passaggio dal Palazzo del Parco non è stato infruttuoso perchè, fortuitamente mi sono imbattuto in una interessantissima mostra che si teneva proprio sotto i locali del Salone, cioè all'Accademia Riviera dei Fiori. Un posto stranissimo, pensate, gli artisti, locali o di passaggio, che lo desiderano possono accedere al laboratorio, dotato di cavalletti, materiali, torchio ed altro e lavorare tranquillamente. Senza pagare una lira, secondo la volontà testamentaria di Giuseppe Balbo (pittore bordigotto) che fondò questa Accademia nel 1949.
Qui espone Alfred Thum, tedesco di Reichersdorf sposato con una bella ragazza italiana, dottore in lettere e studente presso l'accademia di Belle Arti di Berlino. La mostra dal titolo "Luce dall'oscuro" mette in evidenza oggetti di un culto immaginario all'interno di uno spazio scenografico che si serve di medium persuasivi, quali la luce ed il suono, per fornire al referente l'atmosfera suggestiva giusta, atta a decodificare immagini magiche, "in sospensione d'incantamento" dove il colore gioca un ruolo marginalmente decisivo.
L'uso delle terre e di metalli ferrosi come materiali espressivi rimanda a pratiche alchemiche, impregnate di significazioni simboliche e primitive che tendono a ripristinare i tempi divini della Genesi: un processo di riconversione dall'ombra alla luce e dall'informe alla forma.
Alfred Thum espone un'opera multimediale costituita da una autentica finestra a vetri d'epoca, recuperata da residui di antiche ville della Bordighera vecchia, che maschera lo schermo trasparente sul quale vengono proiettate, dal retro, diapositive provenienti da 4 diaproiettori 35 mm. mentre una musica sincronizzata riempie l'ambiente di suoni ad effetto quadrifonico. E' questa un'opera di grande suggestione nella quale convergono effetti e sensazioni che appartengono a ritualità sacrali evocate da magiche allusioni, come la divisione in settori, della finestra secondo la connotazione segnica de l'I King, o da sonorità primitive richiamate alla mente da ritmi e cadenze di una musica etnografica.
In sostanza una mostra tutta da "vivere" che riunisce gli aspetti più "intimi" e "colti" della metodologia operativa della comunicazione visiva. Una mostra della quale riferisco con estremo piacere ed in qualche modo stempera l'effetto negativo (del quale ho parlato in testa all'articolo) della mia sosta a Bordighera.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte.
Quando il segretario generale Fradeletto fece aprire la grande cassa di legno giunta ai Giardini dall'Accademia Albertina di Torino era il 10 aprile del 1985 e di lì a qualche giorno si sarebbe inaugurata la prima edizione della Biennale di Venezia. Il quadro che ne uscì fece sussultare Fradeletto e il sindaco Selvatico presente alla scena.
Il dipinto si intitolava "Il supremo convegno" ed era di Giacomo Grosso. Raffigurava cinque donne nude disposte intorno ad un feretro dal quale emergeva la maschera funerea del cadavere di un uomo. Luogo: una cappella ardente guarnita di veli neri. Ceri e fiori in quantità.
Il forte contrasto tra il nero delle stoffe e i delicati rosa delle voluttuose membra delle giovani donne e la ritualità pagana della scena, satura degli odori delle rose e i guizzi di luce provenienti dai ceri, conferivano all'opera un effetto di grandissima emozione e profonda suggestione.
Qualche giorno dopo tutta Venezia già parlava di quello che, nella mentalità ufficialmente bigotta ma intimamente attratta da ogni sorta di pruderie tipica dell'atmosfera fin-de-siècle, stava per diventare il primo scandalo nella storia della Biennale.
Il Patriarca di Venezia (futuro Papa X) chiese a Selvatico di ritirare l'opera dall'Esposizione, ma il sindaco inviò al cardinale il responso di un "giurì" composto da Enrico Panzacchi, Giuseppe Giacosa e Enrico Castelnuovo i quali tramite Antonio Fogazzaro, loro portavoce, così si esprimevano: "Il dipinto del signor Grosso rappresenta in modo violento uno stretto, pauroso nesso tra la libidine e la morte, onde lo spettatore è mosso a inorridire delle nudità che vi si ostentano bestialmente in un atto orribile. Ci parrebbe duro condannare questo "Supremo convegno" in nome della morale mentre passano dovunque senza accusa tele spiranti a una lascivia che invita, che se qualcosa cela, non è per vergogna, è per arte. Quindi noi, caro Selvatico, Vi rispondiamo unanimi: no, il dipinto non reca oltraggio alla morale pubblica".
Il quadro fu tuttavia collocato in una saletta appartata ma nonostante ciò fu oggetto di grandissima curiosità da parte del pubblico che addirittura lo premiò tramite il referendum, allora istituito, riservato ai visitatori.
Ma di scandali la Biennale ne ha fatti registrare davvero tanti. Famoso quello del '72 che coinvolse l'opera di Gino De Dominicis dal titolo "Seconda soluzione d'immortalità: l'universo è immobile". All'interno del tema "Opera o comportamento" dato per la prima volta all'Esposizione dal curatore Mario Penelope, la realizzazione dell'artista consisteva nell'esposizione dal "vivo" di un mongoloide autentico seduto immobile al centro della sala riservata. Anche qui indignazione, interpellanze parlamentari, intervento di associazioni di categoria, magistratura e Governo. Gino de Dominicis si ripeterà nel '78 esponendo al centro della sala a lui riservata gli scheletri di un uomo e di un cane.
Nel 1978, con il tema "Dalla natura all'arte, dall'arte alla natura", si apriva la Biennale cosiddetta del dissenso voluta da Ripa di Meana; edizione che fu eccessivamente "chiacchierata" per diversi episodi quali, tra gli altri, l'happening ecologico dall'artista israeliano Menashe Kadishman il quale esponeva ai Giardini diciassette pecore dipinte di blu (feroci tumulti degli ambientalisti) e i famosissimi assalti del toro dell'italiano Antonio Paradiso che montava una mucca artificiale (scesero in piazza protezione animale e femministe dell'ultima ora).
Ma vorrei a questo punto parlare degli ultimi due scandali, quelli legati alla edizione attuale entrambi consumati presso le Corderie dell'Arsenale in Aperto '90, per poi paracadutarmi sull'accidentato campo dell'utopia propositiva di questo Ente o, meglio, Evento.
Il primo si riferisce all'opera del gruppo americano del "Gran Fury": sulla parete di fondo del box riservato troneggia una gigantografia di papa Wojtyla con la visualizzazione di una frase pronunciata dal vescovo di New York che dice approssimativamente: "la verità non sta nei preservativi... Buona moralità è buona medicina" mentre sulla parete di destra un'altra gigantografia, stavolta di un pene in erezione, che sembra declamare: "Il sessismo alza la testa non protetta. Uomini usate il preservativo o battetevela. l'Aids uccide le donne". E giù altre frasi (tutte in inglese) che esplicano da un lato l'opinione della Chiesa e dall'altro quella anticlericale sulle possibili modalità di conduzione della campagna di prevenzione della micidiale malattia.
Anche quest'opera, come quella del Grosso, non è stata ritenuta offensiva dal sostituto procuratore della Repubblica invitato a pronunciarsi dall'attuale direttore Giovanni Caradente. Ciò ha fortunatamente rinforzato il principio secondo cui l'arte non può essere misurata con il metro della moralità ricorrente. L'arte è espressione del proprio tempo e l'informazione multimediale appartiene al tempo reale: l'arte è quindi anche informazione. Dovremmo allora (come alcuni purtroppo fanno) scandalizzarci per le immagini relative allo spot televisivo ultimamente messo in circuito dal ministro De Lorenzo? Nossignori, finalmente dopo inutili quanto pericolosi tentativi di camuffare la verità in nome di un'informazione climatizzata dai mutevoli umori di una massa inerte di benpensanti, finalmente il responsabile di un Ministero (!) si accolla la responsabilità (come fosse un delitto) di dire crudamente alla gente cose che la gente già conosce e che vanno sottolineate per la crescita di una società. E una società cresce se ha più cultura.
Il secondo poi, se scandalo si può definire, è legato al nome di Jeff Koons che espone nel suo box un gruppo in cartapesta policroma raffigurante, in dimensioni accresciute, se stesso e la pornostar Ilona Staller distesi nudi su un giaciglio in atteggiamento inequivocabilmente intimo con la presenza complice di un enorme serpente.
Alle pareti laterali enormi dipinti elaborati da un computer, sempre con gli stessi soggetti intenti alle stesse esercitazioni con grande spreco di primissimi piani sugli organi sessuali.
Bene. Koons, ampiamente corteggiato dai giornalisti, vera e propria star dell'arte, ha detto che la sua è un'opera spiritualmente e formalmente "barocca" e quindi solo in parte riferibile al filone pop.
Oltre a condividere ciò che sostiene l'artista americano, intendo anche amplificare questo concetto. Se per barocco s'intende dare significato all'abituale, l'opera di Koons è effettivamente barocca, ma lo è di più se, come mi pare che sia, l'audacia dell'effetto trasforma con grande ironia l'azione di "civetteria hard" in immagine fantastica dell'abituale. Non si può prescindere cioè, nella lettura di quest'opera, dall'ingerenza dei media nella psicologia comunicativa di massa e di ciò che i media rappresentano come oggetti d'uso quotidiano. Ecco l'aggancio effettivo con l'estetica della pop art.
Koons e Cicciolina recitano una scena di parosia burlesca con il pathos della grande tragedia. È in effetti l'apoteosi del Kitsch e questo vale anche per il Gran Fury come per il padiglione spagnolo di Antoni Miralda o di quello polacco di Josef Szajna.
Secondo Karl Rosenkranz, quando un'epoca è fisicamente moralmente corrotta, le manca la forza per concepire il bello autentico ma semplice mentre vuole ancora gustare nell'arte il piccante della frivolezza e della corruzione. "Per eccitare i nervi ottusi si combina insieme l'inaudito, il dispararato e il ripugnante. Il brutto diventa dunque l'ideale della sua negatività".
L'epoca attuale, essenzialmente borghese, ha così ripudiato il concettualismo storico a favore di una ideologia consumistica fondata su una "falsificazione linguistica" (G. Dorfles) che vuole ottenere il "modello" di consumo con ogni mezzo: contraffatto, ridotto, riprodotto, falso finanche ma comunque personale anche se meccanico.
Jeff Koons, a mio parere, è l'unica vera rivelazione di questa nobile signora veneziana di 95 anni, vecchia nello spirito e nel corpo che, sebbene proiettata in una non identificata "Dimensione futuro" cui allude il titolo di questa edizione, offre invece uno sqallido panorama del déjà vu. I vari tentativi di riforma che si sono succeduti nel tempo, le nuove autonomie, i nuovi statuti non sono riusciti a svincolare questa esposizione, nata con la volontà di promuovere la conoscenza, la ricerca e la sperimentazione di nuove individualità dell'arte, dalla logica eversiva della legge di mercato, dal quale subisce invece le risultanze, spesso apparenti, rifugiandosi malinconicamente nel solo ruolo da vetrina di lusso.
Simone Ricciardiello
Giornale di Vicenza, Pagina dell'Arte.

Poissy-sur-Seine è una cittadina di circa 50.000 abitanti che dista circa un'ora di viaggio da Parigi. Vi si respira un'aria tipicamente francese; è ordinata e pulita e vanta nel 1561 uno storico incontro tra personalità dell'epoca con lo scopo di riavvicinare cattolici e calvinisti francesi. Ma a rendere nota Poissy non sono certo queste caratteristiche, certamente comuni ad altre cittadine francesi, bensì una costruzione situata al centro di una proprietà di circa 12 acri sulle colline che guardano la Senna.
Questa villa, uno dei momenti storici dell'architettura moderna, è indissolubilmente legata al nome di Le Corbusier, e non solo perchè è una sua creatura, ma soprattutto perchè rappresenta "la più convincente materializzazione dei principi che egli sia stato capace di edificare in cemento e vetro prima di passare dalla categoria dei giovani rivoluzionari a quella dei maestri maturi" (P. Blake). Quindi, Villa Savoye e Le Corbusier, rispettivamente pietra miliare e cardine dell'architettura moderna.
Charles-Edouard Jeanneret era nato il 6 ottobre 1887 a La Chaux-de-Fonds, presso Neuchàtel, piccola città di orologiai tanto che anche la sua famiglia si era dedicata di generazione in generazione a tale attività; il padre e la madre erano incisori di casse di orologi. L'origine della famiglia Jeanneret era francese, mentre alcuni antenati erano albigesi (eretici francesi costretti a rifugiarsi sulle Alpi per sfuggire alle persecuzioni che costantememnte subivano). Proprio in omaggio ad un suo antenato dallo spirito indipendente, chiamato Le Corbusier, il giovane maestro prese il nome nel 1923, probabilmente per distinguere quella di architetto dalle altre sue attività.
In Villa Savoye, edificata tra il 1929 e il 1931, costruttivamente, esiste il concorso di due precise esperienze: da un lato l'insegnamento dell'architettura araba; dall'altro l'applicazione dei principi cubisti.
Quando Corbu (variazione della parola "corbeau", cioè corvo, coniata per il profilo tagliente del maestro) disegna dal mare il profilo della città di S. Sofia con le cupole e i minareti, ed avvicinandosi studia la tipologia del tessuto urbano, percepisce lo svolgimento della supeficie-muro nei suoi passaggi di giustapposizione alla strada, la stretta integrazione tra la strada e il cortile, il rapporto tra il cortile e la piazza, tra la piazza e la città, tra la città e l'altimetria del luogo geofisico.
E il cubismo, in quali rapporti si pone con questo sistema? Dal momento in cui Picasso con le sue Demoiselle d'Avignon rompe i limiti ottici tradizionali dello spazio figurativo; Braque propone uno spazio anticonvenzionale interagendo con colleges polimaterici che reagiscono alle sollecitazioni della luce; Marinetti, in piena euforia provocatoria, proclama che "un atomobile ruggente è più bello della vittoria di Samotracia"; Le Corbusier intuisce che ogni distinzione tra facciata principale, lati, fronte posteriore sarebbe assurda perchè fuori dal tempo. Ed allora ha valore il totale, l'oggetto in tutta la sua integrità così come si offre alla vista dell'osservatore da tutti i lati.
"La casa non deve avere un fronte. Situata in cima alla cupola deve aprirsi ai quattro orizzonti" sono le stesse parole del maestro a canonizzare la teoria che svela la profonda conoscenza dell'architettura greca. Quando dai Propilei gli si offre lo scorcio del Partenone, Corbu comprende che il tempio si confronta con il tessuto urbano mediante la stretta relazione tra il volume primario e gli altri volumi che con il moto si rapportano allo spazio che li accoglie. In definitiva vede ciò che nessun archeologo aveva fino allora affermato "vale a dire che l'asse intorno a cui i templi agivano era controllato dalle distanti forme del paesaggio" (V. Scully).
Ed eccola Villa Savoye, anch'essa cristallizzata nel tempo, si erge al centro di una proprietà formata a pascolo e frutteto, leggermente convessa e circondata da alberi ad alto fusto.
"Nasce quasi priva di spunti contingenti e può diventare la fedele rappresentazione di un concetto astratto, come la Rotonda del Palladio" dice il Benevolo. Sollevata da terra da sottili pilastri a maglia rotonda, con la vasta zona d'ombra che si condensa sotto il solaio in cemento del primo piano, la villa si offre come un oggetto prezioso presentato su un supporto d'argento.
Ma l'elemento essenziale che ha permesso la messa in opera dei diversi concetti strutturali presenti nella villa è stato l'uso del cemento armato: materiale che per la sua composizione (tondini di acciaio capaci di resistere ad enormi tensioni inglobati in massa cementizia che, con sabbia e ghiaia mescolate in esatte proporzioni, può resistere ad enormi compressioni) offriva la possibilità di costruire edifici leggeri di struttura e planimetricamente molto flessibili. Un sistema costruttivo che Corbu aveva assimilato nei quindici mesi di permanenza nello studio di Auguste Perret il quale, intorno al 1902, aveva avuto la temerarietà di costruire con cemento armato in vista (metodo che avrebbe rivoluzionato l'architettura) in un periodo in cui gli architetti eccedevano in eccessive quanto inutili decorazioni tipiche dell'Art Nouveau.
Villa Savoye è, come dice Zevi, "il sincretismo di tutte le regole" esposte dal maestro nei suoi scritti ed i famosi "cinque punti" sono in essa verificabili uno ad uno: i pilotis; il tetto giardino (un'invenzione assoluta per quei tempi); la pianta libera; la finestra in lunghezza (un nastro di vetro che si svolge senza interruzione per ben ottanta metri); la facciata libera. Una costruzione densa d'invenzioni edificata con grande semplicità per clienti che desideravano vivere nel parco di una loro proprietà distante 30 km. da Parigi. Una serie di geniali intuizioni assaporate mediante una "promenade architecturale" di grande suggestione che permette al visitatore il godimento di una ricognizione quasi mistica dello spazio interno-esterno.
Purtroppo la villa ha dovuto sopportare varie avversità. L'inclemenza del tempo e la dura realtà dell'edilizia pratica (che spesso è entrata in conflitto con la concezione intellettuale) hanno brutalizzato dopo non molto tempo il profilo plastico della sua architettura, creando uno scarto evidente tra idea e realtà. Inoltre, la guerra. Occupata nel '42/43 dalle truppe tedesche ed in seguito da quelle americane, dovette subire vere e proprie mutilazioni, oltre che patire il lungo abbandono e la grave incuria.
Terminata la guerra, madame Savoye, priva di mezzi sufficienti a ridonare alla sua casa l'antico splendore, si isolò nella sua proprietà e, forse per non turbare il ricordo di coloro che avevano visto la villa nel suo pieno splendore, ne negò l'accesso ad ogni visitatore.
Su tale situazione di abbandono, Peter Blake scriveva con pittoresco sapore di reportage: "Ciò che resta oggi di Villa Savoye è in breve questo: una scatola grigia di cemento armato, tutta screziata... Tra i rifiuti si distinguono due vecchie sedie leggere in malacca; un tubo di gomma per innaffiare il giardino, tutto aggrovigliato; una vecchia Citroen berlina, convertitasi, a un certo momento della sua esistenza, in una specie di banco di vendita di ortaggi; i resti di una vecchia tavola da pranzo; e, se la stagione è quella giusta, qualche dozzina di balle di fieno. Dall'interno del mucchio affiorano occasionalmente rumori soffocati: il foyer una volta tanto elegante di M.me Savoye serve ormai da stalla ad un vecchio cavallo asmatico... Il soggiorno contiene un vecchio bancone da lavoro e un carrello da tè fatto a pezzi. Sulla mensola del caminetto, uno stivale spaiato dell'esercito americano.
Quasi tutta la pittura s'è scrostata dai muri; accanto al blu pastello originale sono apparse chiazze di intonaco bianco sporco ......".
Finchè nel 1959 il Consiglio Comunale di Poissy deliberò l'esproprio della villa con l'intento di edificare al suo posto, "molto più convenientemente" un liceo femminile. Per pura fortuna un giovane architetto di passaggio a Parigi scrisse al C.I.A.M. Dopo pochi giorni sul tavolo di Malraux, ministro della cultura del governo De Gaulle, si ammucchiarono tanti di quei telegrammi da costringerlo a far classificare la villa monumento nazionale.
Da allora è lì, com'era in origine, immobile nella sua consistenza surreale, sollevata dagli esili pilotis: quasi dita di una mano, forse la stessa mano alzata del "modulor", essenza metrica del rapporto - dimensione natura -uomo.
Nel 1958, facendo il punto sui momenti storici dell'architettura e sugli uomini che li hanno caratterizzati, Le Corbusier citava Michelangelo e Fidia: l'uno caratterizzante un millennio, l'altro quello precedente. Nei riguardi di Fidia scriveva: "Per duemila anni, chi ha visto il Partenone, ha sentito che si è trattato di un momento decisivo per l'architettura".
Ebbene, in nome di tutte quelle implicazioni in essa sincretizzate, si può tranquillamente affermare che con Villa Savoye siamo ancora una volta a un momento decisivo.
Simone Ricciardiello
La Trivella, dicembre 1990.
Costabissara è un piccolo comune situato sulla direttrice Vicenza-Schio; nebbioso e anonimo come tanti dell'hinterland vicentino, è tuttavia luogo di incantevoli ville d'epoca e di diverse testimonianze di antichi manufatti di notevole pregio architettonico oltre che pittorico, come tanti della provincia vicentina.
Uno di questi è la chiesa di S. Giorgio che "domina" le ubertose colline, le valli adiacenti e la immensa pianura che si stende ad oriente" (Alessandro Dalla Ca' 1904). Secondo recenti studi dovrebbe risalire al 688, allorchè il re cattolico Cuniperto infligge una clamorosa sconfitta all'ariano Alachis nel momento in cui si andava sempre più consolidando il quarto ducato della conquista longobarda nel vicentino.
Come si può quindi capire, un monumento di grosso valore artistico che fa parte del nostro patrimonio e che rientra a pieno merito nella campagna di tutela e conservazione che in questi ultimi anni è molto sentita e che sta producendo effetti inpensati.
Nel mese di settembre la chiesa di S. Giorgio a Costabissara ha esposto se stessa. Infatti il Comune e la Biblioteca civica, con il contributo della Confcommercio di Vicenza, hanno promosso una mostra di grande eleganza e ampiamente documentata sulla storia della chiesa illustrandone i vari restauri subiti e le successive modificazioni strutturali, il tutto corredato da esaurienti schede comparative e pregevoli illustrazioni, frutto di un ottimo lavoro di rilievo.
Ma questa iniziativa, che potrebbe rientrare in una casistica di routine, si differenzia per un particolare che ne fa un esempio di grande interesse da segnalare: è cioè il risultato, proposto in forma espositiva, dell'oggetto di esame del Corso di Disegno e Rilievo, tenuto dal prof. Corrado Balistreri presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, sostenuto dagli allievi architetti Alessandra Ceccon, Marco Lovato, Nicola Menin e Giovanni Traverso.
Oggi che finanche il Parlamento interviene massicciamente nel settore dei Beni Culturali, spinto, quasi obbligato, da un'opinione pubblica mobilitata da una serie di recenti iniziative quali l'indagine "Memorabilia" promossa dall'Italstat e il progetto "Giacimenti ' predisposti dai ministeri dei Beni Culturali e del Lavoro in collaborazione con le Soprintendenze dislocate sul territorio italiano; oggi che i miliardi si sprecano (forse) per i "malati gravi" del patrimonio italiano si avverte la difficoltà di una schedatura efficace che possa scientificamente indicare elementi di priorità per gli interventi di recupero che non siano affidati solo a criteri di clientelismo politico.
Proviamo quindi a valutare la portata di questa proposta vicentina che qualora fosse seguita in modo sistematico da tutte le Facoltà di Architettura italiane potrebbe schedare, catalogare e mettere a disposizione delle Soprintendenze regionali una serie di preziosissime testimonianze della nostra civiltà altrimenti ignorate per i limiti stessi della legge di stanziamento nella fase applicativa.
Non solo, ma automaticamente le nostre Facoltà godrebbero di uno svecchiamento didattico dando agli allievi la possibilità di frequenza a veri laboratori di cultura attiva che, per settori specialistici come questo, risveglierebbero partecipazione e interessi sopiti, se non addirittura perduti. Secondo il prof. Balistreri, per "liberare" lo studente interessato, la presenza fisica del docente nella realtà sociale da rilevare è indispensabile quanto, se non di più, della lezione teorica. Un "service" questo che nelle Università italiane è in larga parte affidato al "volontariato" di uno sparuto gruppo di docenti che dedicano alla didattica lo stesso impegno con il quale svolgono la libera professione.
Il lavoro di questi quattro validi studenti-architetti è la prova evidente che il livello di preparazione raggiunto dagli allievi già nella fascia della secondaria superiore è in costante ascesa e ciò non può che costituire l'indispensabile piattaforma di partenza per il conseguimento di una consapevole capacità post-diploma finalizzata alla maturazione del futuro professionista di una sempre più specializzata società futura.
Simone Ricciardiello
La Trivella aprile 1990.
Con una lettera di Giorgio Soavi "sparata" in occasione dell'inaugurazione della mostra delle opere di Jean Tinguely, è cominciato l'attacco frontale a Pontus Hulten, direttore di Palazzo-Fiat-Grassi a Venezia.
In sostanza si sta cercando, ora apertamente, di togliere la sedia dalle terga di un personaggio antipatico che occupa il posto forse più ambito nel settore. E non è una novità. Da quando, a sorpresa, è stato nominato responsabile con pieni poteri del progetto arte del Gruppo Fiat a Venezia, Pontus Hulten, critico manager svedese, creatore del fenomeno Boauburg di Parigi, è fatto mira di attacchi via via sempre più scoperti. I motivi di questa guerra sono chiari. La strategia operativa di Hulten rischia di compromettere l'equilibrio faticosamente creato in tanti anni di lavoro tra l'istituzione pubblica e l'impresa privata. Un delicato e sottile giuoco basato sul limite della compiacenza politica sviluppatasi dopo la lottizzazione selvaggia che ha raggiunto ormai anche il settore dell'arte.
Ma si diceva del Gruppo Fiat. E' difficile ipotizzare una mossa sbagliata di questa oculata società.
Non è un caso la scelta del critico svedese: effettuata in un periodo in cui il vuoto legislativo italiano in materia di dirigenza museale aveva prodotto una pausa di riflessione, è coincisa con il momento di sfiducia alquanto generalizzato sul modo di gestire gli spazi pubblici dagli storici dell'arte di casa nostra. Rientra in questa casistica la grossa recente polemica che ha visto coinvolto Franco Solmi, direttore della Galleria di Arte Contemporanea di Bologna. Evidentemente il conferimento dell'incarico ad un personaggio straniero, quindi non legato a carrozzoni nazionali, oltre che storico di provata fama, rientra nella tendenza della "caccia allo straniero" a volte già attuata, vedi nel caso Castello di Tivoli-Rudi Fuchs.
Ma Tinguely, in qual modo entra in questo discorso?
È la mostra che segue 'Futurismo e Futurismi" (trecentomila visitatori in cinque mesi) ed "Effetto Arcimboldo" (centottantamila in tre mesi). Entrambe scelte coraggiose, come quella attuale dello scultore svizzero, che dimostrano come sia possibile creare interesse verso l'arte scegliendo mostre apparentemente scontate ma rese appetibili da tagli critici geniali e percorsi con letture d'inedito interesse.
L'operazione Tinguely si pone in quest'ottica.
Proveniente dal movimento Dada, quasi tutto il suo lavoro è incentrato sulla produzione di opere meccaniche. Un modo per esorcizzare la tecnologia della civiltà industriale. Le circa trecento opere esposte, tra sculture e disegni, mostrano la grande influenza che Marcel Duchamp ha avuto sulla sua arte nonchè la personalissima maniera di elaborare il cinetismo estetico con opere di grande suggestione utilizzando rottami di motori, carcasse di auto e tutto quanto recupera tra i rifiuti industriali.
È in sostanza la rappresentazione dell'assurdo quella che ha espresso fino ad oggi Tinguely anche se le sue "machines à sentiments" dell'ultima produzione non sono più l'espressione di un mondo ludico ancorchè ironico, costituiscono invece l'analisi amara su temi tragici quali la morte e la distruzione.
Gli "oggetti ritrovati" che assembla insieme sono l'aspetto di una dimensione più umana che subisce la violenza della tecnologia.
Ancora una volta l'artista è l'interprete del suo tempo.
Simone Ricciardiello
La Trivella, Note al Margine, settembre/ottobre 1987.
La prima mostra di questo nuovo ciclo di Palazzo Grassi a Venezia propone un titolo enigmatico e allo stesso tempo illuminante anche se riferito ad un periodo alquanto lungo della storia dell'Arte. Ma non soltanto lungo bensì denso di situazioni culturali, altrimenti definite in "ismi", che si sono succedute quando non accavallate lungo tutto l'arco della prima metà del nostro secolo.
Un titolo enigmatico perché, diviso in due parti, postula due diverse caratterizzazioni pur tuttavia nell'ambito di un unico "percorso dell'arte rnoderna"; illuminante poiché paradossalmente proprio la proposizione stereografica del titolo potrebbe offrire una chiave di lettura della mostra stessa.
Al di là quindi della distinzione tra le due collezioni, Thannhauser e Guggenheim, che costituiscono il fulcro dell'esposizione, s'insinua lungo il percorso della mostra la possibilità di analizzare, contemporaneamente ma distintamente, da Van Gogh a Picasso "l'elaborazione di un nuovo linguaggio plastico" mediante la revisione dello spazio figurativo e da Kandinsky a Pollock "la trasformazione del repertorio iconografico" che ha originariamente spostato l'interesse dal significato al significante.
Il percorso della prima parte della mostra è aperto dal ritratto di Therese Walter dipinto da Picasso nel 1931 ed è chiuso dalla "Donna che tiene un vaso" di Léger ed è sintomatico come alla sintesi formale della donna picassina si giustapponga la monumentale plasticità della figura femminile di Léger.
Tra queste due opere, gli artisti impressionisti e post- impressionisti della donazione Thannhauser tra i quali Cézanne, Renoir, Degas, Manet, Gauguin e Van Gogh, tutti sul versante dell'introspezione e tesi alla conquista di uno spazio polisensoriale indagato "en plein air" con un'ottica macro secondo l'analisi dello spostamento delle masse e della vibrazione del colore tipica dell'alchimia impressionista.
Ma è proprio Cézanne la cerniera di congiunzione tra Van Gogh e Picasso. Egli non si affanna a distruggere lo spazio rappresentativo ma si preoccupa di sostituirlo con un sistema essenziale che penetrando all'interno delle cose, colga il "divenire" stesso della realtà raffigurata. È il senso bergsoniano della "sa petite sensation" che Van Gogh riprende e trasforma mediante un sistema intellettuale che svilisce i canoni della prospettiva rinascimentale ed esaspera, fin quasi ad invertire, i valori cromatici.
Picasso chiude e sintetizza questo primo criterio di lettura della mostra: la sua è una pittura che sovverte le regole dell'impaginazione statica indicando la possibilità di percezioni simultanee spostando di volta in volta il punto di vista dell'azione e accavallando nella stessa tela varie rappresentazioni: la grande lezione di Paolo Uccello e Piero Della Francesca che costituisce la classicità e al tempo stesso la modernità di questo grande artista.
La seconda parte della mostra, molto più vasta nelle motivazioni programmatiche degli stili, che va da Kandinsky a Pollock e che raggruppa le collezioni di Peggy e Solomon Guggenheim (125 tra quadri e sculture), è quella che si può ricondurre alla trasformazione semiologica dell'opera secondo canalizzazioni differenziate che organizzano sistemi segnici ora oggettuali, ora gestuali o ancora iconici: un paradigma ove la realtà sensibile non è più il punto di partenza bensì il punto di arrivo.
Cosicché il giallo di Kandinsky non è più il colore locale di un limone ma "... rachiuso in una forma geometrica (il giallo) è inquietante, colpisce, eccita. Questa proprietà può essere intensificata e risuona allora come una tromba o una nota di fanfara suonata sempre più forte"; così come una figura ritagliata da un giornale e inserita in un "papier collé" cubista amplifica il suo significato riproduttivo conferendo all'opera una significazione temporale oltre che una inusitata qualità tattile. Oppure come gli impasti ruvidi e terrosi di Dubuffet che non descrivono ma suggeriscono suggestioni materiche, o la fitta stratificazione del dripping in Pollock che crea ossessive texture calligrafiche.
Da Kandinsky a Pollock quindi passando attraverso de Stijl di Mondrian; la metafisica di de Chirico; il dadaismo di Duchamp, Ernst, Picabia e Arp; il surrealismo di Magritte, Delvaux, Dalì, Tanguy e Mirò; il Bauhaus di Klee. Una storica generazione di artisti che ha inteso operare una trasformazione del linguaggio stesso dell'opera, elaborando, ognuno per proprio conto, un codice di scrittura in grado di rendere visibile ciò che nella realtà oggettiva non lo è. Ed è significativo come proprio Kandinsky e Pollock indicati quali poli di questo secondo ipotetico percorso, siano in qualche modo legati alla musica: l'uno per la sonorità evocata dal dinamismo lineare delle sue composizioni, l'altro per il movimento ritmico dei suoi automatismi gestuali affine al jazz caldo.
Ecco la mostra ordinata a Palazzo Grassi, vedova di altri artisti significativi del Novecento italiano solo perché non compresi nelle collezioni citate, indica con chiarezza la strada intrapresa dalla gestione Viti: l'interscambio di iniziative programmate secondo il coordinamento di una strategia museale internazionale.
E', per il momento, l'unica strada percorribile per portare il museo al referente, sfruttando al massimo questo momento d'interesse positivo che mostra la società moderna verso le vicende e, soprattutto, i personaggi della storia dell'arte.
Simone Ricciardiello
Luna Piena, ottobre/novembre 1990.
Da quando si parla di elevazione dell'obbligo scolastico si sta cercando affannosamente di varare una ristrutturazione dei biennio che possa costituire la premessa per la tanto attesa "riforma", autentica araba fenice dell'istruzione secondaria superiore. È evidente che i tecnici ministeriali, forse memori delle fallimentari esperienze del passato, ancora non hanno trovato il coraggio di proporre un modello didattico/operativo centrale che possa sostituire quello attuale del quale tutti ci lamentiamo ma che ci auguriamo di non dover rimpiangere in un prossimo futuro.
La revisione del biennio tocca da vicino quindi anche il settore dell'Istruzione Artistica dove le cose vanno purtroppo ancora peggio. Nei Licei Artistici, roccheforti di privilegi corporativi di antica data, le polemiche obsolete sulla scarsa formazione culturale e sulla limitazione degli sblocchi occupazionali rappresentano, oggi più che mai, ferite sempre aperte difficili da rimarginare.
Anche qui l'Ispettorato competente, incapace di fornire proprie indicazioni, ha assunto la posizione passiva di osservatore, limitandosi a registrare quel che di buono e di cattivo succedeva nelle sperimentazioni che andava via via approvando.
Questa strategia ha permesso al Ministero di raccogliere una serie di dati che ha poi filtrato ed omogeneamente organizzato nell'estensione di un progetto sperimentale centrale che, all'inizio di quest'anno scolastico, ha inviato all'attenzione dei Collegi docenti dei vari Licei Artistici per un'eventuale approvazione e conseguente assunzione.
Le caratteristiche del progetto (al quale hanno lavorato il capo dell'Ispettorato per l'Istruzione Artistica dott. Pietro Mistretta, il dirigente Lucio Letizia, e gli ispettori Giuseppe Contarmi, Anna Benanti, Mario Checchia, Michele di Raco, Pietro Gagliardo, Agostino Pittaluga, Marisa Semeraro, Lidia Torghele e Anna Uva) si possono riassumere in tre punti: 1 - elevazione del corso di studi a cinque anni con una articolazione biennio-triennio; 2 - introduzione di nuove discipline e potenziamento di quelle esistenti per una accentuazione della base culturale; 3 - individuazione nel triennio di 4 aree d'indirizzo, rispondenti a specificità professionali e supportate da nuove discipline.
Le materie di nuova introduzione sono: Lingua straniera, Filosofia, Elementi di diritto, Educazione Visiva, Chimica e Laboratorio (di modellistica, fotografia, tecniche grafiche).
Il monte ore, dalle 44 attuali, è stato ridotto a 38 ore. Le varie discipline sono raggruppate in: a) discipline di base (che diminuiscono nel passaggio dal biennio al triennio; b) caratterizzanti, comuni a tutte le aree d'indirizzo; c) specifiche, esclusivamente rivolte a ciascuna area d'indirizzo (e che aumentano come le caratterizzanti nel passaggio dal biennio al triennio).
L'intento del progetto è quello di fornire strumenti per l'acquisizione in senso storico-teorico di una conoscenza dei problemi dell'espressione umana, analizzando a tale scopo le possibilità operative dei linguaggi esistenti. Per affrontare tali percorsi formativi è ritenuto necessario il supporto di una padronanza linguistica che possa chiarire i fini della progettualità artistica intesa "non solo come estrinsecazione di abilità operative, ma come modo di porsi di fronte al reale e come strumento di comunicazione".
Il triennio è articolato in aree di indirizzo così individuate: Architettura e design; Grafico visivo; Figurativo; Catalogazione e conservazione dei beni culturali.
Il biennio, secondo l'ipotesi del prolungamento dell'obbligo scolastico, offre una composizione curriculare tale da permettere il conseguimento di "compiuti traguardi culturali".
La metodologia calca la mano sull'integrazione e sulle convergenze del piano di studio e postula la flessibilità programmatica e l'adeguamento alle caratteristiche dell'utenza anche in funzione dell'evoluzione dei settori operativi esterni.
Verifiche e aggiornamento concludono le premesse di questo progetto che appare molto articolato e corposo (ben 100 pagine) e sul quale, pur senza entrare nel dettaglio delle nuove materie proposte, non pare azzardato proporre alcune considerazioni.
E' chiaro che un progetto di sperimentazione centrale contiene in sé elementi positivi e negativi allo stesso tempo. Ha di buono che evita l'esercizio del libero arbitrio e le manipolazioni normative eccessivamente disinvolte che in diversi casi hanno danneggiato sperimentazioni sommariamente controllate all'interno delle quali organismi con caratteristiche ingiustificatamente decisionali commettono veri e propri abusi; di meno buono ha che, proprio perché generalizzata, la proposta non tiene conto di realtà socio-culturali assai diverse tra loro.
Il merito principale degli estensori del progetto sta nell'aver compreso che il settore della comunicazione visiva di una moderna società esige un operatore estetico in grado di proporsi consapevolmente quale polo di cultura mediale. E l'aver saputo individuare aree d'indirizzo quali Design e Grafica, settori di enorme interesse e sviluppo, e Catalogazione e Conservazione dei Beni Culturali, area formativa per il personale specializzato da destinare al settore museografico, aggiunge ulteriore merito ai super tecnici ministeriali.
Tuttavia, proprio guardando all'obiettivo di una vera specializzazione, si nota che le ore destinate alle materie d'indirizzo sono estremamente insufficienti. Infatti, prendendo come campione l'area Figurativa, escludendo Educazione Visiva (7 ore nel triennio) che si presenta come autentico doppione delle pittoriche (8 ore nel triennio), Discipline Plastiche e Discipline Pittoriche possono contare su appena 14 ore nel triennio: un danno irreversibile per l'acquisizione di una consapevole capacità di tradurre in segni le conoscenze storiche ed estetiche assunte nell'area culturale di base.
Inoltre, dal momento che le aree d'indirizzo si formano in seguito a scelte opzionali, è facile ipotizzare che, per insufficienza di iscrizioni, uno o più indirizzi non si attivino (conseguenza delle caratteristiche socio-culturali locali) mutilando in tal modo la parte più interessante del progetto.
In conclusione, ancora troppe sono le incognite di questo che tutto sommato si può ritenere un valido tentativo di svecchiamento strutturale dell'istruzione artistica. Il compito di chi scrive non è quello di fornire alternative bensì riportare la proposta dei tecnici mettendone in evidenza pregi e difetti. Nessuno di noi può presumere di avere la verità in tasca, specialmente in questo delicato settore nel quale si gioca una partita decisiva per il futuro delle nostre generazioni. Potrebbe però essere ipotizzabile l'apertura delle commissioni di lavoro alla figura che forse potrebbe portare l'esperienza diretta nella fase progettuale: il docente.
Certo, la ristrutturazione della secondaria si rende sempre più necessaria come ormai è improrogabile la revisione dell'istruzione artistica, sia per i Licei Artistici e Istituti d'Arte che per le Accademie di Belle Arti, ma a questo punto non è il caso di cedere all'urgenza in modo confuso bensì operare scelte meditate e coraggiose che tengano conto delle esigenze didattico-culturali della nostra società e che possano permettere alla Scuola italiana un adeguato allineamento ed un onorevole confronto con gli altri paesi europei in vista della imminente scadenza del '92.
Simone Ricciardiello
Rinnovarsi, Atgtualità, febbraio/marzo 1989.
I primi giorni di dicembre hanno visto la scuola italiana impegnata nel rinnovo degli organi collegiali a livello di circolo o istituto, distrettuale, provinciale e nazionale. Il breve rinvio delle votazioni, in un primo tempo programmate per i gionri 24 e 25 novembre '91 (e spostate in seguito alla concomitanza dei referendum regionali abrogativi in Friuli Venezia Giulia e del rinnovo di alcuni consigli comunali) segue a quello ben più vistoso di un anno voluto dal Ministro della P.I. ufficialmente per predisporre l'auspicata riforma degli organi collegiali, ma in pratica per cercare di procrastinare il più possibile quest'evento alquanto "dirompente" per il precario equilibrio della "struttura" scuola. Purtroppo il ritrovarsi dopo 4 anni dalle ultime votazioni alla status quo, con il disagio di elezioni che forse nessuno più vuole, per la costituzione di organismi in cui forse nessuno più crede, la dice lunga sullo stato di malessere in cui versa la scuola italiana.
Come si sa, gli organi collegiali previsti dalla legge delega n° 477 del 1973 sono stati istituiti e disciplinati con il decreto del Presidente della Repubblica n° 416 del 31 maggio 1974 "al fine di realizzare - nel rispetto degli ordinamenti della scuola dello Stato e delle competenze e delle responsabilità proprie del personale ispettivo, direttivo e docente - la partecipazione nella gestione della scuola dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica". Questo progetto di democratizzazione, sorto sulla scia di vaste e decise mobilitazioni studentesche dal '67 in avanti, ma direi soprattutto come logica conseguenza dell'approccio con la scuola da parte del movimento operaio attraverso le organizzazioni sindacali e politiche, basa il suo aspetto dogmatico su due pregiudiziali di notevole valenza strettamente collegate fra di loro: la gestione partecipativi e il rapporto scuola-società.
Se da un lato è evidente che il principio gentiliano della scuola di Stato nella sua accezione di "modello qualitativo" e non già quale strumento generale di istruzione, ha indotto l'adozione del "consenso partecipativo", basato sull'interazione di nuove figure di operatori scolastici, resta comunque palese il fallimento di quest'incisivo coordinamento tra istituzione scolastica e comunità auspicato dai Decreti delegati (art. 1 del DPR 416 del '74) che già la centripeta riforma Gentile, pur con i suoi numerosi limiti, aveva avuto il merito quantomeno di individuare.
Tra i principali motivi della débacle degli OO.CC sta l'interpretazione distorta del concetto di partecipazione, vista come "necessaria" contrapposizione ad uno stato di potere (retaggio inconsulto di un periodo di esasperata politicizzazione) e del concetto di uguaglianza, alla fine stancamente vissuta come piatta uniformità, deresponsabilizzazione individuale e disimpegno laddove, l'intento del legislatore, indicava invece una prospettiva che avrebbe dovuto impegnare i soggetti al massimo delle loro capacità e valorizzare i meriti individuali quando finalizzati al bene comune.
Per quanto attiene invece al suo rapporto con la comunità civica, la scuola si trova oggi ad operare spesso scollegata, anzi direi isolata dalla società, per tutta una serie di motivi che vertono sulla rivalutazione e sulla ridefinizione della funzione docente nonchè del ruolo che la società, attraverso i suoi organismi di governo, riconosce alla scuola nella interezza delle sue componenti.
Quale credibilità potrà mai avere nei confronti dell'opinione pubblica un servizio essenziale come quello scolastico, estremamente delicato perchévolto alla formazione del giovane della società futura, sul quale un Governo incapace di adottare una benchè minima metodica riformistica non fa altro che abbattere tagli indiscriminati? Cosa dovrebbe gestire in maniera manageriale (sic!) la collegialità quando il potere centrale non è in grado di attuare un minimo di quella autonomia amministrativa che avrebbe dovuto far seguito all'autonomia didattica? Quale azienda moderna che si rispetti avrebbe oggigiorno la presunzione di ipotizzare il proprio potenziamento e la propria espansione operando tagli sulla produttività anzichè aumentare il capitale sociale e praticare nuovi investimenti!
Questi, che rappresentano solo la punta di un iceberg che vaga pericolosamente in rotta di collisione, sono i motivi concreti di disaffezione verso gli organismi partecipativi scolastici, a qualsiasi livello. Ed è un vero peccato in quanto ciò potrebbe vanificare le conquiste faticosamente raggiunte da coloro che hanno sempre lottato per una scuola migliore oltre che disperdere un bagaglio di esperienze estremamente positive (educazione alla salute, tossicodipendenza, dispersione scolastica, orientamento) attuate proprio in virtù del confronto interattivo tra forze sociali ed Enti Locali.
Quindi, se un parere può bastare per rendere ancora credibile la possibilità di un futuro diverso, perchè migliore, l'esortazione è quella di insistere sulla strada intrapresa, puntando però sulla scuola il massimo delle nostre risorse: l'esercizio del voto è quello che ci assicura la vera identità della scuola fornendoci nel contempo l'unica garanzia di partecipazione democratica. A patto che sapremo scegliere.
Simone Ricciardiello
Progresso 3, gennaio 1992.
L'arte è un fenomeno estremamente complesso la cui comprensione chiama inevitabilmente in causa non soltanto competenze specifiche ma anche compatibilità elettive, sensibilità estetiche e, per usare un eufemismo musicale, quadratura (intesa come senso del ritmo e del tempo).II "fare" arte, invece, è cosa ben più complessa in quanto presuppone, da un lato, la capacità di assimilazione di una fenomènica specifica e dall'altro l'abilità di predisporre un processo di sedimentazione dei sapevi onde poter adottare una metodica in grado di esprimere sistemi oggettivi adoperando chiavi linguistiche soggettive, anche se molto spesso di difficile lettura quando non addirittura di inestricabile decifrazione. E' a tal proposito condivisibile la tesi di Achille Bonito Oliva secondo cui, quando il tema della complessità s'impone "nelle tematiche e nella coscienza dell'arte contemporanea, la tecnica assume sempre di più il compito di riprodurre dentro di sé e nella sua evoluzione il rapporto complesso dell'artista col mondo".
Ciò sicuramente ripropone in termini attuali la profonda contraddizione insita nel concetto di "divulgazione" dell'arte, maggiormente acuita dalla critica moderna che lascia tuttora aperto il quesito relativo al linguaggio del testo: meglio criptico o comprensibile; erudito o semplice; d'élite o di massa?
Su questa vasta problematica è oggi impegnata una nutrita schiera di operatori; tra essi un artista, Carmine Piro, ed una mostra, "Picta Lux", vale la pena di segnalare per la forte valenza culturale della proposta.
Picta Lux si articola lungo due coordinate cartesiane. La prima sottintene una assiomatica coniugazione storica tra due tòpoi dell'arte: Castel del Monte, situato alle estreme pendici orientali delle Murge, ispiratore della ricerca pittorica dell'artista ed il Palazzo Ducale di Mantova, sede della mostra. Due entità spiritualmente diverse tra loro: l'uno austero, enigmatico, alchemico, modulare; maestoso, principesco, articolato l'altro. Entrambi tuttavia accomunati da un passato di glorioso mecenatismo che vide Federico Il, intono alla metà del 1200, splendido protettore delle scienze e delle arti e Francesco e Isabella d'Este grandi animatori dell'attività culturale dell'ultimo Rinascimento italiano.
Castel del Monte, quindi, come summa,.dei convincimenti teoretici, religiosi e filosofici medievali; compendio di tesi e antitesi matematiche: i numeri di Fibonacci; la sezione aurea; la divina proporzione e, tanto per gradire, un pizzico di astrologia che vuole la turrita costruzione ottagonale posta "a mezzogiorno dell'equinozio di autunno" (Tavolaro) e definito dai ritmi del movimento solare.
"Da Castel del Monte -dice Vincenzo Perna nel suo mirabile saggio introduttivo al catalogo- Carmine Piro torna con questo prezioso bottino, il connubio dell'ombra e della luce che rigenera proprio Ià dove è confitto l'asse del mondo; il dilatarsi e il ritrarsi della vibrante "lux" con la sua leggerezza e la sua pesantezza, con la sua trasparenza e la sua densità, con la sua invisibilità e la sua tangenzialità durante lo scorrere delle ore, dei giorni, delle stagioni".
In questa lucidissima riflessione sta tutta la pittura di Carmine Piro; Perna compie un'operazione di scavo profondo all'interno della materia pittorica sovrastrutturante condotta però con una perizia da microchirurgia. Il suo bisturi analizza il "significante" per strati sottilissimi fino ad evidenziare la seconda delle due coordinate di cui parlavo, quella cioè che congiunge due polarità solo apparentemente distanti tra loro: il "sapere" e il "saper fare".
Carmine Piro, che "tene 'o mestiere 'mmano", partito dal barocco napoletano; passato attraverso il costruttivismo analitico di Malevic e l'understatement estetico di concezione minimalistica di Judd, Lewitt e Carrino; approda ad una pittura astrattamente alchemica. Egli, uomo del nostro tempo, artista della cosiddetta società postindustriale, non rimane indietro ma si allinea alla tecnologia dell'alienazione, diventando interprete del suo tempo secondo una progettualità da "Durer metropolitano". All'alchimia introspettiva sostituisce il software compatibile alla costruzione di forme e strutture primarie molto più vicine a Jackson Pollock che non a Mondrian. Infatti il "sistema di segni" che strutturano il campo pittorico caratterizzato da avanzamenti e arretramenti , da improvvise accelerazioni a destra o deviazioni a manca, sembrano tracciati da un sofisticato joystick anzichè da un comunissimo pennello a pelo di bue.
A Mantova, nell'appartamento che un tempo vide le glorie d'Isabella d'Este, lo spirito di Mantegna (per dirla come Mariano Apa) ci invita a "guardare in su" per lasciarsi risucchiare dall'infinito; Carmine Piro ci invita a guardare "in giù" ove è in grado di offrire una visione dello stesso infinito, ma molto più terrena, attuale, disincantata.
Simone Ricciardiello
Progresso 4, febbraio 1992.
RIFLESSIONI
Succede che tutto a un tratto ti accorgi che fai pittura con le cose, con la mente, con te stesso, ed allora ti fermi ed osservi.
Ti guardi dietro e vedi delle cose di cui prima, quando ti passavano per le mani, non ti eri accorto. Così cominci a capire. Il grumo che si era formato e che mandava in tilt i tuoi pensieri si scioglie man mano che metti a fuoco.
Che cosa è questo spazio, di chi è?. Se fosse mio lo costruirei. Direttamente, senza false tecniche illusorie; in effetti basta che "sia", il come è pura convenzione. E' strettamente personale.
Il timore che la razionalizzazione di questa certa realtà sia eccessivamente cruda (forse esasperata), giustifica, molto probabilmente, la presenza di un'immagine residua (cordone ombelicale che lega una nuova operazione ad una vecchia e collaudata attività) atta a rappresentare specificamente l'oggetto-metro del rapporto tra "umano" (ambiente) e "razionale" (realtà soggettiva).
Nel momento in cui ti accorgi che in sostanzapuò molto semplicemente esistere un "umano razionalizzato" è fatta; tagli il cordone ombelicale e l'idea inizia una sua vita indipendente.
La struttura vive di una vita tutta sua, si sviluppa in rapporto all'indagine particolareggiata su quella realtà che è divenuta tua e che tendi a far partecipe.
La dimensionalità ci sembra subisca continui mutamenti e palpita alla stregua di un polmone che si gonfia e si rigonfia. Il rilievo stesso è quello che, secondo legge di percezione visiva, ci fa sembrare in movimento questo connettivo urbano (se così posso chiamarlo), definendo allo stesso tempo una reale spazialità con l'apporto di una terza dimensione e, nel momento in cui stabilisce una correlazione con la temporalità, anche di una quarta dimensione.
Dal tessuto unitario della struttura si isola, smaterializzandosi e materializzandosi, un archetipo che diventa fonte primaria d'interesse.
L'indagine è ora volta si du esso (segno) che si modella secondo le esigenze della tua operazione. Si ripete; si rileva; si incava; si sovrappone; si modula. Diventa: struttura esso stesso; divisione; intenzione; linea di forza che tende a superare lo spazio in cui è compressa, per completarsi in una dimensione che è a sua volta (o in embrione) motivo di altra rappresentazione.
Lo spazio; il tempo; il segno; l'illusione; la realtà; l'oggettualità; la struttura. Di tutto ciò non ti eri accorto, ma è successo.
Simone Ricciardiello, aprile 1978



