ANNINOVANTA
"Non mi ero mai accostato a un quadro con tanti ingiusti pregiudizi quanti ne provavo nei riguardi della signorina Thompson, in parte perché ho sempre sostenuto che nessuna donna sa dipingere e in secondo luogo perché pensavo che una cosa di cui il pubblico si entusiasmava tanto "doveva" non valere niente".....Ruskin 1815.Nel 1980 una studiosa d'arte attivamente impegnata sul versante delle avanguardie attuava, vincendo le numerosissime resistenze dell'entourage politico locale, una mostra storica intitolata "L'altra metà dell'avanguardia" assegnando al termine "metà" il carattere di proposta alternativa. Lea Vergine (è di lei che si parla) poneva in quell'occasione le basi per una rilettura critica, in chiave di assoluta autonomia, di quelle donne che erano state ora muse, ora semplici compagne di strada di alcuni grandi artisti e che reclamavano una propria indipendenza stilistica dopo essere state archiviate con estremo disimpegno dalla critica militante come "personalità interessanti", come sottolineato dalla stessa Vergine.
Storica quella mostra perché per la prima volta il "fenomeno" donna-artista andava analizzato scientificamente, al di fuori di ogni aneddotica ancorché oltre i rigidi schematismi tipici del saggio d'autore. Una mostra di sole donne veniva caparbiamente proposta, in maniera prorompente, al fine di far pagare alla storia il debito che aveva assunto con una categoria da sempre osteggiata, mal sopportata, quando non compressa in una sorta di limbo ovattato fatto di ipocrite adulazioni e di inutili contentini. "Da una donna della mia classe -scriveva nel '700 Kathleen Scott- non ci si aspetta niente, né cervello, né energia, né iniziativa e basta mostrarne un briciolo per riscuotere lodi smisurate". Dall'altro lato le stesse Accademie incoraggiavano, e i critici spesso premiavano, artiste senza alcun talento, mortificando, invece, l'ottimo lavoro di donne che cercavano d'imporsi con grande serietà di ricerca e di impegno. Ma questo purtroppo è un malcostume che ancora oggi persiste, senza distinzione di categorie né di sesso.
Ma è poi acceratata la scarsa incidenza della donna nel sistema dell'arte? In termini di citazioni, oltre che troppo semplice, sarebbe anche storicamente ingiusto menzionare solo l'ormai nota Artemisia Gentileschi senza far torto alla foltissima schiera di grandi talenti artistici femminili delle quali la storia ha praticamente cancellato ogni traccia.
Sofonisba e, soprattutto, Elena Anguissola; Lavinia Fontana; Elisabetta Sirani; Natalai Goncarova; Berthe Morisot; Suzanne Valadon; Sonia Delaunay; Cecilia Beaux; Mary Cassat; Raphael; Kay Sage, sono solo alcune delle tantissime artiste che attendono ancor oggi una rivalutazione critica in grado di stabilire con certezza storica l'assenza dalle loro opere di qualsiasi dipendenza formale maschile. Anzi, semmai la prova che spesso proprio le donne hanno segnato l'indirizzo stilistico dei loro compagni d'arte e di vita. Come il caso emblematico e tragico di Camille Claudel, la più grande scultrice francese dell'Ottocento, che "scolpiva alla Rodin" ancor prima di conoscere il grande scultore francese e le cui passioni travolgenti e tormentate avevano ispirato ad Ibsen il dramma "Quando ci sveglieremo tra i morti".
A distanza quindi di dieci anni dalla mostra di Lea Vergine, durante i quali la politica dell'arte ha in qualche maniera subito mutamenti per alcuni aspetti radicali, agli amministratori pubblici della città di Vicenza è sembrato giusto rendere omaggio alle artiste dell'area veneta o che al Veneto sono state legate da vincoli affettivi.
Una mostra in prospettiva questa di Vicenza ove percorsi diversi di differenti artisticità, muovendo dall'enunciato espressivo degli anni Ottanta si pongono quali poli di verifica delle futuribili premesse e successive conquiste estetiche del ventunesimo secolo.
"AnniNovanta" è una mostra dalla quale è volutamente bandito qualsiasi segnale di rivendicazione femminista o di sapore corporativo. Ad una simile impostazione sarebbe contraria sia una ragione critica che una ragione politica. Intanto perché non è certo il fenomeno femminista che può fornire una risposta ad un'artista in quanto il referente dell'artista è l'Arte e non la politica; ma anche perché le mutate regole dell'establishment artistico, condizionato dalle conquiste dello stato di diritto civile, hanno via via accresciuto la presenza della donna nelle sfere più privilegiate della pittura. Basti rilevare come dalle 9 presenze femminili su 276 artisti invitati (il 3 per cento circa) alla Quadriennale di Roma del 1966 si è passati alle 41 presenza su 400 (il 10 per cento) dell'edizione del 1986. Ed è già tanto se si pensa che la donna artista si è dovuta nascondere per anni dietro nomi asessuati o maschili addirittura.
Ecco che allora i termini del discorso si spostano essenzialmente sull'analisi sociologica dell'Arte. In sostanza oggi è il caso di chiedersi se esista una fisiognomica specifica della donna-artista, se cioè la cosiddetta creatività femminile sia qualcosa che differisca biologicamente da quella maschile. E ancora: esistono tipologie artistiche particolari, quali soggetti o dimensioni, che possano essere considerate caratteristiche di un'arte femminile? Un tempo, forse, e non certo per motivi morfologici.
Il Rinascimento, pur elevando l'artista medievale dallo stato di "artifices" al rango di "magister" era ben lungi dal riconoscere alle donne la personalità giuridica. Una pittrice nel '500 difficilmente poteva firmare con il suo nome un quadro al quale aveva lavorato, mentre nel '600, per accedere all'Accademia, doveva prima praticare un apprendistato di cinque anni. Nel '700 Novella D'Andrea teneva le sue lezioni nascosta da un paravento per non "turbare" gli allevi con la sua presenza procace.
E' invece consolidata la teoria secondo cui l'artista donna, originariamente dedita ad imitare le opere degli artisti uomini per il comprensibile scopo di compiacere gli altri, impossibilitata alla trattazione dei grandi temi per difficoltà logistiche legate alla copia dal vero ed alla frequentazione di studi ubicati al di fuori dell'ambito familiare, si era dedicata alla ritrattistica raggiungendo con le sorelle Anguissola e Rosalba Carrieri (tanto per citare due soli nomi) vertici di raro virtuosismo. "Ho appreso più da questa pittrice (Sofonisba Anguissola) -scriveva il giovane Van Dyck- che da tutti i miei contemporanei".
In seguito, e fino all'inizio del secolo, la donna si è rifugiata in un ambito parallelo e, per così dire, integrativo, praticando cioè territori ancora incontaminati dall'invadenza maschile come l'arazzo, il dipinto su tessuti, l'abbigliamento e la moda. Quando poi quest'ultima è entrata nel circuito di enormi interessi finanziari, il settore è stato letteralmente monopolizzato dagli uomini. Dior, Armani, Missoni, Trussardi, Fiorucci, Valentino, Versace, sono solo alcuni dei fashion-leaders che rendono trasparente questo tipico fenomeno dell'accaparramento maschile.
Le mutate condizioni della mutata società hanno però modificato sostanzialmente anche il rapporto interprofessionale tra i due sessi.
Sembrano ormai tanto lontani i tempi da bohème in cui Gabriele Munter diceva rapita: "...stavo aggrappata a Kandinsky, mi consideravo di nessun valore accanto a lui che era un uomo sacro." Oggi le artiste operano (magari sottoposte ad un eccesso di stress) riservandosi uno spazio professionale paritario, programmando una metodica pianificazione della propria attività secondo i parametri già collaudati dal management femminile del settore pubblico e privato.
"AnniNovanta" si pone quindi come momento di riflessione su luoghi comuni ormai sclerotizzati e come affermazione di una pittura che del vecchio still-life non ha più nulla. O, se proprio volete, gioca le sue carte sfruttando lo "specifico" femminile, se è vero, com'è vero, che una grossa fetta dell'arte contemporanea fonda la sua capacità di penetrazione comunicativa sulla carica di seduzione che riesce ad esprimere mediante la messa in opera di incanti, trucchi, astuzie: "fictions" che da sempre appartengono al bagaglio di riserva delle donne.
Le caratteristiche iconiche del linguaggio artistico femminile, partito da posizioni di ripiegamento e dopo aver superato la pratica delle arti minori e lo sfruttamento del corpo (intendo Performance e BodyArt), hanno fondamentalmente modificato il vecchio sistema soft di comunicazione in un rinnovato orientamento "hard" tipico del riflusso neoespressionista e postmoderno degli anni Ottanta.
Solitamente una mostra con la sola presenza femminile parte con il rischio di chiudersi in un ghetto profumato angusto almeno quanto quello dal quale rivendica l'uscita; questo perché troppe grossolane "rassegne" di donne pittrici sono state fatte dal '70 in poi e ancora si continuano a fare con l'intento superato di creare spazi che oggi per la verità sono aperti ed orientati semmai per simpatie politiche o anagrafiche, non certamente di sesso.
Questa mostra invece insinua nelle trame dell'arte moderna l'obbligo del ripensamento sulla già citata "creatività" femminile, più autentica, meno "costruita a tavolino" di quella maschile perché ancora in attesa di un inserimento efficace nel circuito mercantile d'élite. Ecco, forse è questo l'ultimo ostacolo sul cammino della completa equiparazione femminile. Giova sottolineare a tal proposito come alla Biennale di Venezia (vero termometro della banca dell'arte mondiale) edizione '88 la presenza femminile è stata appena dell'11 per cento, percentuale che da sola chiarisce il perverso meccanismo secondo il quale ad ogni ripresa del mercato corrisponde una maggior chiusura verso le artiste.
Secondo Flavio Caroli, per esprimere la nostra realtà bisogna essere pittori oliati e tesi "come macchine da pittura"; ebbene, le artiste presenti a questa mostra rappresentano in ambito femminile il punto di riferimento più attendibile nel settore delle arti visive dell'area triveneta.
Le artiste invitate: Olimpia Biasi; Mirella Brugnerotto; Elena Cappello; Graziella Da Gioz; Carmen De Visini; Annabella Dugo; Franca Faccin; Giosetta Fioroni; Paola Gasparotto; Annamaria Gelmi; Patrizia Guerresi; Lucia Lanza; Michela Modolo; Gina Roma; Lina Sari e Lura Stocco negano ogni forma di idiomatismo corporativo assicurando al loro enunciato estetico un contributo intellettuale di primissimo piano. Una operatività che passa attraverso il superamento di una tradizione (veneta-coloristica) desublimata e che aspira a ripristinare l'assunto cartesiano del "Cogito ergo sum", dotando così la Storia di un modello autosufficiente, alieno da assurde gerarchie e da subordinazioni obsolete.
Ecco, queta mostra di sole donne, voluta da soli uomini, è qui, davanti a tutti. Postula solo attenzione critica e chiede di poter diventare per la città di Vicenza un appuntamento biennale, significativo per la valorizzazione della cultura veneta e utile alla crescita armonica della nostra società civile.
Simone Ricciardiello, febbraio 1990
Presentazione a catalogo.
IMMAGINI
Alcune immagini d'insieme della mostra.

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